«Pellegrino, ma se non ci fosse il vuoto su cosa edificheresti quello che sei? Se non ci fosse un foglio bianco, come scriveresti?»

(Nathan)

C’è un tempo che ci attraversa, irriguardoso, e ci sorprende sempre, mentre scorre in fretta, come il profumo del caffè che si diffonde repentino, riempiendo la stanza prima ancora che ce ne accorgiamo. E poi c’è il tempo dell’attesa, del viaggio, dell’incontro. Un tempo che non si lascia afferrare, ma che ci invita a rallentare, a sostare, a riconoscere il mistero che ha abita ogni volto, ad accettare quel che non si può controllare, a seguire il flusso.

Fernando Sabino (non Pessoa, come spesso si crede), nel suo O encontro marcado (L’appuntamento fissato), ci ricorda: «Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro».

Ecco, sentirsi sempre all’inizio, anche quando il tempo davanti a noi è ormai più breve di quello alle spalle, confidare nel cammino che ancora si offre generoso ai nostri passi, accettare la fine anche quando l’interruzione è brusca: sono semi di sapienza, coordinate preziose per l’appuntamento che ci attende. Perché, in fondo, siamo tutti attesi da un encontro marcado, anche quando meno ce l’aspettiamo o lo desideriamo.

Senza fretta, però. Perché c’è chi, come Tommaso Castellana, al cui In cammino con Nathan questo Caffè si ispira, vede nel passo lento la possibilità di crescere senza ansia, di rispettare – come un albero – le stagioni, di imparare a vivere le soste, nel ritmo dei tempi lunghi, quelli che non si possono forzare.

E allora medito: forse è proprio questa la natura benefica del vuoto, dell’attesa a tempo indeterminato, che scava e incava, rendendoci disponibili all’incontro, affinandoci all’arte di ascoltare in silenzio il silenzio.

Mi abbandono così alla meraviglia di occhi che parlano negli occhi, come cantano i Casa del Vento in Alla fine della terra:
«Se potessi raccontare come parlano i tuoi occhi
Rispecchiavi meraviglia, ogni cosa da scoprire
Penso solo a come fare a fermare questo tempo
La bellezza dei tuoi anni e il tuo sguardo all’infinito».

Alla fine del viaggio, forse la scoperta più autentica è questa: un rispetto incondizionato per il l’Infinito che ogni essere umano nasconde e rivela in sé e attraverso sé. Perché in ogni uomo e in ogni donna si cela e dispiega una storia che non ci è dato possedere, ma solo sfiorare.

È un rispetto che nasce dall’umile consapevolezza di non poter spiegare tutto, dal lasciare che qualcosa ci sfugga, dal non ridurre mai l’altro, neppure se stessi, a ciò che vediamo o comprendiamo. Un rispetto che non ha bisogno di regole, perché si fonda su una scelta quotidiana. Che vede il mistero dell’altro, e quello insito in ciascuno di noi, non come un ostacolo, ma come una promessa.

E allora, davanti a un modesto caffè, possiamo concederci il lusso di non avere tutte le risposte. Possiamo imparare a restare, ad ascoltare, a lasciarci cambiare dall’incontro… sul limitare del tempo.

Tommaso Castellana: «Come l’albero, il Cammino ci insegna a rallentare, a crescere in tempi non definiti e a immergerci nel ritmo naturale delle cose. Saper vivere le attese, rispettare quelle più lunghe, e allo stesso tempo essere pronti a mutare. A saper ascoltare».

Christian Bobin: «La lentezza è la forma più raffinata di attesa».

Rainer Maria Rilke: «Abbi pazienza con tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e cerca di amare le domande stesse».


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