È una delle pagine più analizzate, ma anche più oscure ed amate della storia italiana, che ci riporta agli albori della nostra nazione: l’Unità nazionale.
Interessante risulta essere lo studio in merito dello storico Carlo Nardi, pubblicato sul secondo numero della rivista “L’Eloquenza” del 1959, col quale si mettono a confronto gli interventi parlamentari successivi alla interpellanza del Conte Laurenti-Roubaudi (di famiglia nobile, militare, nativo di Nizza), allora membro della Camera dei Deputati del Regno di Sardegna (VII legislatura), in data 12 Aprile 1860, in cui vi furono anche interventi dello stesso deputato Giuseppe Garibaldi e di Pasquale Stanislao Mancini. In tale occasione, i toni furono accesi e si parlò di grande “smacco” ordito da Cavour a “L’eroe dei due Mondi” attraverso la firma di un trattato ritenuto illegittimo ed incostituzionale che sanciva di fatto il passaggio della città di Nizza, della Savoia e relative contee alla Francia.
Molti sono i risvolti esecrabili di questa vicenda, resa possibile dal trattato segreto di Torino, stipulato nel 1860 tra l’allora re d’Italia Vittorio Emanuele II e l’imperatore francese Napoleone III e controfirmato dei due primi ministri: il potente Marcel Thounevel e l’emergente Camillo Benso, conte di Cavour. Con questo trattato, conseguenza dell’impegno informale che la Francia aveva sottoscritto con il Regno sabaudo in cambio di aiuti militari durante la Seconda Guerra d’Indipendenza, si realizzava de facto il plurisecolare sogno francese di ottenere sotto il proprio controllo una zona strategicamente importante e storicamente restia a quel governo, come la contea nizzarda. Esemplare a questo proposito è la storia di Caterina Segurana – in arte “Donna Maufaccia” – che, durante l’assedio turco-francese del 1543, spronò il popolo nizzardo alla resistenza strappando dalle mani di un alfiere turco il suo vessillo. Altro esempio, ma questa volta di fedeltà del popolo nicese al territorio italiano, potrebbe essere l’antico patto, firmato fra la città ed il regno savoiardo nel 1388, con il quale essa si impegnava ad essere sempre fedele al re sabaudo con un unico vincolo: quest’ultimo non avrebbe mai potuto cedere ad altri quel territorio.
Tornando, però, alla questione principale, possiamo affermare che la cessione della contea di Nizza alla Francia sia stata, da parte del governo italiano, un’autentica inosservanza degli antichi concordati; ma ciò che più interesserebbe sono le modalità con cui questo “passaggio di proprietà” fu attuato e quali siano state le rimostranze date dal Primo Ministro davanti al Parlamento della giovanissima Italia, ancora tutta da conquistare. E proprio da quest’ultimo postulato si può partire per una lunga discussione sulle modalità di annessione di gran parte dello Stato pontificio al Regno italiano. C’è da dire, innanzitutto, quanto fossero strettamente collegati il suddetto Stato e l’impero di Napoleone III: moltissimo, a giudicare dalle sorti della Repubblica romana di Mazzini; e perciò si possono ricondurre i plebisciti di annessione dell’Italia centrale al regno sabaudo (ma in particolar modo della Toscana e dell’Emilia) con la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia.
In un passo della pubblicazione già citata si legge: «La Risposta fu senza ambagi. L’ambasciatore francese Benedetti dichiarava: “Napoleone vuole assolutamente Nizza e Savoia, quand’anche avesse contro di sé tutta l’Europa”. E quando alla dichiarazione fece seguito la minaccia di un’occupazione francese della Toscana e dell’Emilia con le milizie che ancor presidiavano la Lombardia, il sacrificio anche di Nizza fu compiuto: Cavour dovette controfirmare il trattato segreto di cessione firmato dal re (12 Marzo 1860)».
Un ricatto, dunque, da parte della Francia. Ma ciò che più stupisce non è l’amore del Cavour per una causa maggiore, per cui rinunciare ad un pezzetto d’Italia in forza dell’acquisizione di ben più vasto territorio (anche se poi osserverà giustamente il Rattazzi che: «Quando si vuole fare l’Italia, quando per farla non siamo ancora a mezzo cammino, […] non s’incomincia per cedere una parte di questa Italia»), bensì i tempi di attuazione del “falso” plebiscito – sotto cui celare la “vendita” – e le parole spese in Parlamento dallo stesso Primo Ministro in merito alla stipulazione del trattato.
Partendo dal plebiscito, il Laurenti-Robaudi, supportato in questo dal grande giurista Pasquale Stanislao Mancini, chiese conto al Governo della velocità di esecuzione dello stesso (la votazione era da effettuarsi a Nizza tre giorni dopo la sottoscrizione del trattato). Questa velocità si può spiegare con le parole dello stesso Mancini che, durante il suo discorso – riportato dal Nardi integralmente – afferma: «Se avesse luogo questo voto in Nizza domenica prossima, in realtà non sarebbe possibile che queste garantie (la garanzia che i Nizzardi avrebbero potuto votare in toto e liberamente, data la mancanza di tempo necessario per la raccolta di documenti, ndr) fossero in veruna guisa ordinate o ristabilite». Una vera e propria falsa votazione, a giudicare dai soli undici voti contrari all’annessione, ma dato anche l’attaccamento dei Nizzardi alla causa unitaria durante i moti del ’48.
Per dimostrare quanto fosco fosse il quadro politico in quegli anni ed anche per esemplificare il rapporto di plusvalenza del Parlamento italiano in decisioni vitali come quella presentata, basterebbero le parole che lo stesso Cavour espresse in merito alle responsabilità da assumersi per la stipulazione del trattato: «Giammai finché saremo ministri noi ci ritireremo dietro il voto del Parlamento per coprire la nostra responsabilità. Noi del trattato ne assumiamo l’intera risponsabilità, e se vi ha dell’odioso, non dissentiamo che ricada sopra di noi».
A parere dello scrivente risulta corretta la presa di coscienza del Conte in quest’occasione ed insanabile il contrasto sorto tra Cavour, Garibaldi ed i fautori di quella che passerà alla storia come la “questione nizzarda“. Garibaldi e lo stesso conte Carlo Laurenti-Roubaudi, benché eletti nella VIII legislatura di quello che ormai, dopo il plebiscito, era divenuto il Parlamento del Regno d’Italia, diedero le dimissioni come atto di protesta.
Rimane solo da chiederci se Garibaldi avrebbe avuto così tanta fretta nel voler risalire la penisola da Marsala al grido “O Italia o morte!“, in diverse circostanze e cioè conscio della perdita definitiva della sua città natale, “donata” al nemico di sempre. Ma, soprattutto, bisogna chiedersi come sarebbe andata se lo stesso “Eroe dei Due Mondi” non fosse stato fermato tempestivamente quasi alle porte del Lazio: se si fosse veramente saziato con la conquista di Roma, oppure se il suo azzardato piano fosse ben diverso e di più larghe aspirazioni. Ma, queste, come è nosto, sono solo congetture.