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In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque, lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere sé stesso? E dove sarebbe quanto di sé stesso non comprende? Fuori di sé stesso anziché in sé stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure, gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano sé stessi” (Agostino, Confessioni, libro X, cap.8)

Se dovessimo partire da questa frase non potremmo non considerare quanto, nella sua profondità, questa sia anche vera. La capacità di comprendersi pienamente sembra essere solo un campo psicologico, al massimo frutto di un esperimento mentale. Capirsi non è una impresa facile, anzi molte volte risulta essere la più strana da intraprendere. A inizi Novecento, si aveva la sensazione di essere nel fiume dalla forza dirompente: quello della scienza capace di risolvere tutti i problemi del mondo, tanto che si parlava di aprire le porte a un’epoca bella e affascinante. Ti potevi anche ritrovare ad ascoltare la musica delicata e sognatrice di un Debussy o ammirare il prodigio della tecnica che mostrava immagini che si muovevano magicamente, prendendo vita. Vi era pure chi riusciva a staccarsi da terra e volare, chi credeva nel 1897 il nostro pianeta talmente bello da poter essere invaso dai marziani (La Guerra dei mondi di Wells), sulla scia delle teorie di dieci anni prima di Schiapparelli, che con il suo telescopio aveva visto dei canali sul Pianeta rosso. Ecco, insomma, si era in una rivoluzione immaginifica, dove si nascondeva però sempre qualcosa di oscuro, di poco comprensibile. Se pensiamo alla psicanalisi freudiana forse capiremmo perché ebbe successo. Nonostante l’uomo progredisse nelle scienze, dentro conservava un luogo buio, difficilmente accessibile, come le case di Pompei nascoste sotto la lava del Vesuvio. Il clima di euforia celava l’ombra abissale degli incubi che dallo stare rintanati nell’inconscio di sono poi palesati nella realtà di due guerre mondiali.

Oggi siamo in una situazione similare. Capirsi, o cercare di farlo, è una impresa coraggiosa ma che può essere serenamente messa fra parentesi. L’affermazione per cui solo un Dio ci possa salvare sembra essere stata annullata. Dopo Auschwitz, dopo le tante Gaza del mondo contemporaneo non si può più parlare di salvezza o di Dio, ma dell’uomo e delle sue sorti, che si muovono progressive verso un nuovo mezzogiorno di pace o si incamminano verso l’Olocausto nucleare. La meraviglia è stata sostituita dal terrore, dall’inevitabile fine che sembra serpeggiare in tutte le strade del mondo. Sempre di più la bussola umana del non arrecare danno all’altro è spinta nelle categorie che appesantiscono e non danno vita. Illudendoci quindi che la scelta umana, senza guardare all’invisibilità comunque reale delle possibili conseguenze, sia sempre e solo la migliore. È la pretesa di fare da sé, senza guardare alla possibilità che possa più esistere altro che non una terra da conquistare o dell’acqua da bere. D’altronde, se ci pensiamo bene, se il nucleare l’avesse vinta, non ci sarebbe più nessun vincitore né alcun perdente. Pure per i grandi della Terra si mostrerebbe la fragilità di vivere per decenni nei rifugi atomici, senza sole, senza vera aria, senza nulla. Ora siamo quasi nullificati, proprio perché non si è più capaci di coltivare la meraviglia. Ma è in quel quasi il discrimine. Si può ancora decidere in che direzione muovere i passi. Soprattutto, la libertà umana resta sempre valida e capace di cambiare la realtà. Può bastare a volte poco, anche un battito d’ali, a stravolgere le cose. Basta una intuizione, un ascolto più profondo della Verità che abbiamo dentro, un abbraccio della persona cara, il pianto di un bambino mentre si muore.

Quando penso all’emozione che hanno provato i primi uomini nel vedere il mondo fino ad allora invisibile dei batteri, avranno compreso come tutto fosse vita, come tutto fosse un brulicare di movimento, di strane dimensioni che nessuno immaginava. Che ricaduta avrà avuto su di loro? Avranno pensato da una parte di essere smarriti in un universo pieno di realtà parallele, solo pensate fino ad allora. Oppure si saranno sentiti prigionieri delle teorie passate. La paura del vuoto che avevano sembrava colmata, ma un nuovo vuoto avanzava: che ruolo ha l’uomo in questo mondo? Come si può leggere nella Lettera agli Ebrei l’uomo mostra di essere alla ricerca di una patria[1] in un tempo che ha perso il gusto dello stupore, del guardare al Bello come alla risposta migliore per vedere sotto diverse prospettive il nostro tempo.

Ora, se pensiamo ad oggi, di cosa meravigliarci? Non è che ci siano occasioni di fermarci a guardare al meraviglioso. Lo cerchiamo ma se osassimo chiederci il suo perché esso non interesserebbe. Afferma in un testo intervista il fisico Federico Faggin che “il problema di oggi è che tendiamo a specializzarci: per esempio, il tipico scienziato usa principalmente la testa, ma trascura il cuore e la pancia[2]”. E può considerarsi anche giusto cercare di mantenere una oggettività, un distacco professionale dall’oggetto degli studi. Ma esistono regole morali da considerare in ogni cosa che si fa e soprattutto esistono emozioni che non puoi nascondere. Pure lo scienziato, infatti, arrossisce in viso, pure lo studioso di matematica non può essere distaccato dall’amore anche se ti chiami Sheldon come nella famosa serie televisiva di anni fa.

Crediamo che la scienza nel proprio sviluppo debba escludere domande di senso che non siano quelle della pratica quotidiana. In medicina il farmaco da usare è la risposta alla domanda sul come prendersi cura, così come lanciare satelliti in orbita è la risposta alla domanda su cosa ci sia ancora da scoprire nell’universo. Il problema della scienza è avere escluso la vita. Potremmo dire che, se da una parte l’uomo ha dentro la necessità di creare e ricreare, egli però non riesce appieno nell’impresa, perché non riesce più a stupirsi. Sembra che tutto sia già sotto controllo, dalla nascita della vita alla decisione sulla morte, sempre più annunciata e desiderata. Cosa quasi assurda se si pensa all’Achille che vuole vivere da semplice o a un Dante che, pur andando nell’aldilà, sente sempre di voler vivere ancora nell’al di qua. Scriveva Bergson nel proprio testo L’Evoluzione Creatrice che “l’uomo è a cavalcioni dell’animalità e l’umanità tutt’intera, nello spazio e nel tempo, è un esercito immenso avanzante al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro di noi, in una carica irresistibile capace di spazzar via tutte le resistenze, di oltrepassare una quantità d’ostacoli, forse persino la morte[3].

La scienza odierna, spinta verso l’inesauribile fiume dell’intelligenza artificiale, cui si abbevera e a cui anela di lasciare la fatica di realizzare e creare, non ha fatto altro che estromettere il senso del cavalcare lo spazio e il tempo. Se quest’ultimo è superiore allo spazio, citando papa Francesco, è perché esso contiene più di quanto crediamo. Se lo spazio è ricco di vita, lo è anche il tempo. Racchiude la storia, la memoria, ciò che siamo e non è fatto solo di coordinate fisiche, di momenti staccati l’uno dall’altro. Oggi non abbiamo più tempo.

Corriamo senza che arrivi un traguardo sicuro dove giungere al termine di una maratona lunga quanto la nostra vita non è più il problema. Questo è ora riempire di tante cose spazi ristretti quanto un secondo. È spingersi ad accumulare istanti credendo che siano tutto noi e ritrovarsi privi di sé, del proprio esistere. Men che mai possiamo vivere una spiritualità che non si lascia misurare. Pure lo spirito viene racchiuso in rintocchi continui, così come lasciamo i battiti del cuore più ai cardiofrequenzimetri che ai sentimenti.  L’uomo che avanza verso il futuro ha la pretesa di battere lui, ogni momento, ogni attimo, lo scorrere delle lancette e della fine non gli importa più. Non si interroga né sulla fine né sul fine della vita e se cerca di farlo l’abisso dell’apocalisse nucleare avanza, inesorabile perché altri hanno deciso le sorti, la fine, senza che tu abbia più modo di dire qualcosa, di decidere qualcosa. Il motivo è nel non domandarci più cosa sia l’umano, in cosa consista il diritto alla vita e su cosa debba fondarsi l’esistenza e se questa abbia un fondamento. Togli il fondamento all’umano e resterà il tempo che avanza, senza sostegni ricchi di prospettiva e progettualità. Il noi chi siamo? è interrogativo privo di senso.  E demandiamo alla scienza astrofisica il chiedersi se altri ci siano, come il James Webb Telescope mostra quotidianamente cercando le luci delle origini, scoprendo che le galassie più antiche sono vicinissime. Che poi…Vedere l’universo e le sue forme dovrebbe spingere l’arte a non concettualizzare ma a riscoprire il gusto della metafisica. L’arte è o no un modo per esplorarsi? Se Debussy creava arabeschi, ora che creiamo se non strumenti che per lo più sono di morte? Manca la vita, manca la domanda sulla qualità del tempo speso, sulla nostra vocazione. La scienza avanza a cercare il come delle origini e noi abbiamo scordato il perché. Perché? Perché richiede tempo. Scoprire le luci dell’universo primordiale è diventato fare un viaggio fuori, nel firmamento. Ma a quando la prima domanda che il è cercare cosa avvenga dentro noi, nella luce dell’interiorità? Ci daremo appuntamento?

[1] Eb 11,1-2.8-19

[2] Federico Faggin, Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono, Mondadori 2024, p. 26.

[3] Per comprendere appieno la citazione si consiglia la lettura del testo in cui essa è contenuta, ossia Henry Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. a cura di Giancarlo Penati, La Scuola, Brescia 1961, pp. 115-134


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Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.

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