
«Ridere è il linguaggio dell’anima»
(Pablo Neruda)
Caro lettore, adorata lettrice,
oggi ti invito a leggere questo caffè come prosecuzione di quello di domenica scorsa e magari anche di quella precedente.
Devo dire che sono stati tra i più apprezzati e letti degli ultimi mesi. Ma io, ormai si sa, sono un inguaribile, per quanto pentito, perfezionista: se mi lodano in mille ed uno mi critica, a chi vuoi che guardi, secondo te?
Bene, hai già indovinato.
In realtà, non è che abbia avuto delle vere critiche: erano piuttosto delle giustificazioni del proprio “diritto alla infelicità”, mascherate da sane (?) obiezioni di buon (?) senso.
Del tipo: sì, tu hai ragione a pensare e scrivere ciò che pensi e scrivi, ma io…, ma la situazione…, ma in certi casi…, ma il tal ruolo professionale…, ma la burocrazia…, ma questo Paese pigro e corrotto…, ma il sistema…
Eccetera, eccetera.
Ora, in verità, non è che abbia raccolto esattamente tutte queste obiezioni/giustificazioni. Alcune mi sono giunte realmente, altre mi viene facile presumerle.
Tanto, si sa: sono le solite obiezioni di chi si rifiuta di provare a cambiare se stesso dandone la colpa alla circostanza che va contro la sua buona e coartata volontà.
Solo che io non ci credo. E non a caso le ho definite “giustificazioni del proprio diritto all’infelicità”. Perché sono proprio convinto che, pochi o molti che siano, vi siano tra noi persone infelici perché hanno scelto di rimanere tali.
Sia chiaro: non penso a chi vive situazioni tanto gravi e inestricabili che sarebbe legittimamente autorizzato a disperare. Lungi da me offendere il dolore di chi versa in reali condizioni di sofferenza, morale o fisica che sia.
Il fatto è che non sarebbe la prima volta che incontro o ascolto persone che avrebbero davvero il sacrosanto diritto di lamentarsi, o magari persino di arrendersi, e poi vedi che sono le prime che non solo non gettano la spugna, ma sono di conforto a chi sta loro intorno con volto compunto.
E, d’altra parte, vedo chi ha la pancia piena, la salute buona, il guadagno assicurato, e si permette di vestire i panni del sociologo o meglio del “filosofo realista”. Quasi che lui o lei avesse il copyright del “realismo” (ricorda: non troverai mai un pessimista che si definisca tale! Sempre come “realista” si presenterà!). Sono i medesimi che, di sovente, puntano il dito contro quanti provano a rimboccarsi le maniche, a risalire la china, ad accendere una speranza, insomma: a far la parte degli sfigati “ottimisti” che si illudono che la realtà sia modificabile.
Sai che c’è? Tu, io, ognuno di noi, siamo “reali”. Tu, io, ognuno di noi, siamo parte della realtà. Tu, io ed ognuno di noi. Ciascuno, nella misura in cui decide e si adopera per cambiare se stesso, nella misura in cui riesce a cambiare anche solo una piccola parte di se stesso, ha già cambiato il mondo.
E le chiacchiere stanno a zero.
Primum vivere, deinde philosophari: appunto. Mica “vivono” solo i realisti/pessimisti! Io sono portato a ritenere che abbiano una vita molto più intensa i realisti/visionari. Quelli che provano a seminare luce.
In definitiva, io penso e vedo che ci sono realisti che sorridono e altri che no.
Tu che ne pensi?
Francesco Bacone: «La rabbia rende arguti anche gli uomini ottusi, ma li conserva poveri».
Francois de La Rochefoucauld: «Se non avessimo difetti, non proveremmo tanto piacere a notare quelli degli altri».
Haruki Murakami: «E secondo te perché mi stimo così poco? – chiesi. – Perché vivi solo a metà – rispose lei come se fosse niente. – L’altra metà è ancora intatta da qualche altra parte».