Le voci dei civili e le parole capovolte

Restare seduti sulla propria poltrona per lunghi minuti, fino all’ultimo titolo di coda, e uscire in perfetto ordine da una sala cinematografica, avvolti da un silenzio assordante è un’esperienza davvero molto rara. Un lunghissimo finale senza colonna sonora, né bisbigli, né rumore di passi, che impietrisce togliendo il fiato.

È quanto è accaduto dopo la visione del film “La voce di Hind Rajab” del regista Kaouther Ben Hania. La pellicola racconta la storia vera di una bambina palestinese di 5 anni rimasta in auto per circa 6 ore al telefono con i soccorritori della Mezzaluna rossa, a soli 8 minuti da lei, mentre i corpi dei suoi famigliari giacevano esanimi accanto alla piccola, assassinati dall’esercito israeliano. L’estremo ritardo dei soccorsi è il risultato di un complesso sistema burocratico di coordinamento delle operazioni, in cui le informazioni devono passare da un’autorità all’altra, attraverso l’esercito e gli stessi soccorritori, prima che questi ultimi possano avere il via libera ed evitare, in tal modo, di restare anche loro vittime del fuoco israeliano. Un sistema non solo inefficiente (volutamente?) ma anche inutile, dal momento che, alla fine, l’esercito non solo non risparmia la vita della povera bambina, ma rivolge la propria furia anche contro gli operatori dell’autoambulanza, proprio quando sono finalmente giunti ad un passo dall’auto. Una corsa contro il tempo che è anche motivo di accesi scontri tra il coordinatore della Mezzaluna rossa, il quale non vuole mettere a repentaglio la vita dei suoi colleghi, e l’operatore telefonico che, accusandolo di essere un cieco e pavido burocrate, è devastato dalla paura di non riuscire a salvare la vita della bambina, dopo aver già sentito spegnersi quella della cugina durante la prima telefonata.

Nel lento scorrere delle ore sono le parole ad essere protagoniste dei fatti: un’operatrice in lacrime, con il supporto di una psicologa, non smette mai di parlare teneramente alla piccola, che, in evidente stato confusionale, fatica a descrivere in modo coerente la situazione e, anche quando prende chiaramente consapevolezza del tragico destino dei suoi famigliari, continua a ripetere una semplice limpida supplica: “Vienimi a prendere, presto!”. Ma, a parte gli impotenti operatori telefonici, tutto sembra maledettamente sordo a quel flebile grido innocente, che continua a implorare aiuto in mezzo agli spari dei carri armati, incapace di comprendere le ragioni degli adulti. Una voce tanto più straziante quanto più lo spettatore sa che si tratta di quella reale della bimba, che il regista ha voluto lasciare in originale trasmettendone la registrazione.

La voce di Hind Rajab è il grido di dolore di tutti i civili innocenti martoriati da questa assurda e troppo lunga guerra, alla mercè di meccanismi di potere più grandi di loro, insensati e ingiusti. Civili senza alcuna colpa, tranne quella di essere nati in un luogo conteso, dove si è fatta terra bruciata di ogni ultimo brandello del diritto internazionale. Una voce che in questi giorni, come nel film, sembra arrivare solo ad altri civili, che ben poco- ma tanto di importante – possono fare, mentre le autorità restano chiuse in una bolla impermeabile ad ogni sensato ragionamento e ad ogni più elementare reazione di pietà umana.

Sì, perché, ad una marea inarrestabile di manifestazioni, flash mob, email alle istituzioni, petizioni, scioperi e azioni dimostrative, che finalmente segnalano un risveglio della partecipazione democratica, le autorità stanno opponendo le “ragioni” della prudenza o peggio stanno gridando allo scontro ideologico. A ben vedere, la comune strategia consiste nel ribaltare la realtà con un gioco di parole svuotate del loro più evidente significato. Ed è così che un capo di stato con un mandato d’arresto internazionale può presentarsi all’ONU sostenendo di dover finire il suo “lavoro” a Gaza. “Terrorista”, “irresponsabile” e “fazioso” diventa chi, su imbarcazioni private, a proprie spese e a rischio della propria vita, affronta un lungo e faticoso viaggio da ogni parte del mondo, lasciando lavoro e affetti per portare aiuto ad un popolo stremato, sfidando un blocco militare illegale e ben sapendo di non poter sfamare più di cento famiglie per un breve periodo di tempo, ma consapevole di non poter restare indifferente anche di fronte ad una sola vita in pericolo. Viceversa, chi contesta la Flotilla si vanta di essere “divisivo come Gesù, Berlusconi e Trump” perché, dice, chi non è divisivo è “inutile”; o accusa quell’impresa filantropica globale senza precedenti di voler solo mettere in difficoltà il governo italiano.

Agli occhi di questi rappresentanti delle istituzioni, “ideologiche” sarebbero anche le azioni dimostrative di tutti quei manifestanti, di ogni età e di ogni estrazione sociale, che, sotto le sole bandiere della pace e della Palestina, in migliaia sfilano ordinatamente per le strade di tante province italiane, per chiedere di porre fine all’immane carneficina, rinunciano alla retribuzione di un giorno di lavoro o donano alcune ore del proprio tempo libero per lanciare petizioni e appelli, realizzare volantini, organizzare incontri, scrivere pezzi.

Ancora, “dannose” e “non pertinenti” alla vita scolastica sarebbero tutte quelle attività didattiche che, spontaneamente, studenti e docenti stanno organizzando in questi giorni per informare e sensibilizzare, contro ogni tentativo delle autorità di ostacolarle. Come l’invito dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio ad affrontare solo “tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica e sottratte a qualunque altra finalità” o la preoccupazione espressa dal Sottosegretario di Stato del MIM che, perdendo alcuni giorni di lezione, gli studenti possano procurare danni all’edilizia scolastica e alla propria preparazione in vista degli esami di maturità. Come se una manciata di ore scolastiche dedicate a manifestare e a discutere della pace non potessero essere considerate ore di educazione civica, molto più proficue rispetto alle decine di ore di orientamento obbligatorio, spesso improvvisato e caotico, finalizzate a formare futuri lavoratori, tecnici ed esperti, piuttosto che menti pensanti.

Ed ecco che in questa realtà mistificata, dove tutto appare distorto come attraverso un gioco di specchi deformanti, “martire della libertà” diventa chi muore sotto i colpi di un fanatico come lui, perché crede che la libertà di espressione sia illimitata, che si possano usare le parole per offendere e denigrare il prossimo, per seminare l’odio e diffondere ogni sorta di evidenti menzogne sull’inferiorità delle donne e sulla superiorità dei bianchi. Roba da razzismo biologico ottocentesco, che, se non fosse stato smentito dalla scienza stessa nel secolo scorso, sarebbe quanto meno vetusto. E ancora, “vittima” di una campagna di odio si sente chi è dotato dei più grandi poteri, gode di sicura scorta e di un lauto stipendio. “Eroi” le cui gesta si chiede pubblicamente di insegnare nelle scuole, vengono definiti gli squadristi della “X MAS” che uccisero, torturarono e deportarono migliaia di persone colpevoli solo di aver detto “no” ad un regime di morte e distruzione. Blasfemo uso della bellissima parola greca “héros”, che, invece, come afferma Socrate nel “Cratilo”, deriverebbe da “eros” perché, in fondo, è l’amore per l’umanità che muove ogni vero eroe.

Parole capovolte di fronte a voci che, limpide come l’acqua, gridano solo dolore. Un capovolgimento che nemmeno sofistico si può definire perché, invece, un sofista come Gorgia, quando affermava, contro ogni evidenza, che anche l’essere non è, adduceva potenti argomentazioni. Mentre qui nessuna argomentazione sorregge queste parole di carta. Che nemmeno a quelle in uso nel linguaggio nazista possono essere paragonate! Perché queste, invece di essere capovolte, erano piuttosto spersonalizzate e quindi più facili da smascherare: chiamare “irresponsabili” degli eroi disarmati è molto più ingannevole che definire “pidocchi” o “merce da stoccare” degli esseri umani.

È forse troppo ingenuo invitare le istituzioni ad un semplice gesto? Ascoltare quelle poche inequivocabili parole: “Vienimi a prendere, presto!”.

Roberta Di Canio


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