
Un po’ “fuori di testa”, predicando un’amorevole rabbia nel tormento per l’evoluzione, “ma diversi” da coloro che per fobia del nuovo che avanza vogliono il ritorno alla rigidità dei palchi nei festival
La parabola evangelaica secondo i Måneskin è quella di “Zitti e buoni”, per invitare i chicchessia del qualunquismo a non stare zitti né bonariamente remissivi di fronte all’oppressione e agli oppressori dei nuovi tempi. Il rock ritorna, dopo un anno di abnegazioni e resilienze negli angoli dei garage; e ritorna direttamente sul palco del nazionalpop a rendere ritmicamente più lieve e meno leggera l’aria, più graffiante il senso, più audace e vivo il socio-festival sanremese.
Una semplice e benefica presa d’atto il “siamo fuori di testa”; una presa di coscienza l’avversativo del “ma diversi da loro”. Ribelli, i Måneskin, ma senza ricerca d’inutili eccessi. D’altronde il rock già parla da sé senza bisogno di troppi costrutti o pose.
Un imperativo per vivere senza accontentarsi di sopravvivere, l’esser fuori di testa, magari per essere davvero dentro al cuore. Il nuovo piccolo vangelo degli additati che non si accontentano di stare nelle masse, ma che al contempo conservano una buona dose di vaccino contro il facile snobbismo dei cantanti eccessivisti: questo sembra essere l’orizzonte premiato al festival sanremese 2021, ai tempi del Covid.
Una vittoria pimpante, meritata, divergente: al ritmo intrigante di un rock semplice che con una sorridente rabbia giovanile “dissacra” il tempio della linearità pop, in mezzo alle tante canzonissime di bandiera.
La scorsa settimana è stata la settimana in cui è passato il treno delle rocce d’inciampo su cui rifondare i templi delle musiche e delle fratellanze resilienti, pare. Gli italiani accendendo la TV o connettendosi sui social da smartphone e pc hanno trovato in casa non solo Sanremo, ma anche qualcosa di più coraggioso, serio e profondo. Hanno trovato un Iraq colorato di pace dal coraggio di un Papa inumidito di humanitas. Il viaggio del Papa in Iraq ci dimostra una chiesa catto-liberata e liberante che si rifà roccia per rifondare se stessa oltre gli immobilismi delle alte burocrazie, e oltre le differenze di credo. In giro per il mondo senza fisse dimore auree, quella chiesa si rifà corpo animato, rafforzato dalle fragilità condivise, si rifà portavoce universale di speranze, calamita di pace in mezzo ai ferri ardenti della vita, in Iraq.
La visita missionaria di Papa Francesco scuote le coscienze al di là dei dogmi e delle situazioni culturali di bandiera. La tradizione di fede apostolica, radicata nella resurrezione dell’umano dal destino di una morte a senso unico, risveglia se stessa dal torpore delle comodità a cui era stata piegata, in tanti secoli di formalità e distanze mentali fra religioni. Con il suo esserci in carne, ossa e spirito Bergoglio in Iraq, in questo momento storico, ha dimostrato con i fatti quanto sia importante non celarsi dietro alla roccaforte dell’autoreferenzialità. L’esserci lì, ora, ha spaccato ogni crosta ad una speranza finora proferita soltanto a parole.
Il viaggio in Iraq diviene un’occasione esistenziale per far emergere il grido di dolore in un terreno di orecchie e di sguardi umani pronti ad accogliersi a vicenda. La diversità religiosa non è più una scusante per fare le prime donne sulle poltroncine della propria roccaforte. La diversità religiosa non equivale più a lontananza con Bergoglio. L’eternità non si cela dietro le dottrine del proprio ceto, ma in ogni emozione che provoca l’incontro in un adesso e in un qui con l’altro, strofinando i desideri di umanità oltre le incrostazioni delle fobie.
Ciò ch’era arido può divenire umido. Su una fresca roccia verrà rifondata forse una nuova chiesa di pace e unione universale, trasversale e divergente, in ogni dove e al di là dei nomi. Questa sarà la via, partendo da ciò che di buono già passa il nostro tempo.
TV, social e giornali con la loro fagocitante mobilità hanno intensamente plasmato la propria narrativa, incidendo sull’umore, sul tempo e sulla mente degli italiani e non solo, durante la scorsa settimana. Chiusi in casa la sera con in pugno lo scettro sostanzialmente eteronomico del telecomando, gli italiani hanno assistito agli eventi del festival di Sanremo e della missione bergogliana in Iraq. Al di là di ogni narrativa però restano i fatti, e i frutti simbolici di una speranza che va coltivata quotidianamente, e che ci viene passata come un testimone ispiratore di umanità.
Così dopo la appena trascorsa settimana mediatica non ci resta che coltivare una speranza immediata nella realtà, con più forza discernitiva, valutativa e d’azione, soprattutto in questi giorni di riprospettate chiusure.
Saremo magari visti un po’ “fuori di testa”, predicando un’amorevole rabbia nel tormento per l’evoluzione, “ma diversi” da coloro che per fobia del nuovo che avanza vogliono il ritorno alla rigidità dei palchi nei festival, e soprattutto degli altari nelle chiese. Basta invece conservare un po’ d’equilibrio, nel buon senso, e restare innovatori senza mai scadere nell’eccesso di autoreferenzialità vuote, in quella ch’è stata definita la Likecrazia, che non vale solo nella politica (dove a denunciarla è stato il libro “Likecrazia” di Daniele Capezzone) ma anche nella musica e nelle questioni religiose.
Il riformismo del costume e della libido teologica nel post-umanesimo si faccia pure rock, radicale nella manifestazione e intensamente equilibrato nei contenuti. Da questo – e non su questo – rock di agape e lotta, un giorno, l’innovazione rifonderà la sua chiesa.




























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