La sorte divina e banale di Ozpetek

La sorte che ha fatto incontrare Arturo e Alessandro è neutra, non ha accezioni positive o negative, è una fortuna bendata da gestire e plasmare a proprio piacimento, è il realismo che Ferzan Opetek mette in tutti i suoi lavori.

“La Dea Fortuna”, infatti, lascia trasparire un soggetto che Gianni Romoli e lo stesso Ozpetek esasperano fino all’inverosimile, seguendo un canovaccio che Edoardo Leo, Stefano Accorsi e Jasmine Trinca edulcorano con sapiente esperienza cinematografica, inasprendo i toni di vicende a noi vicine.

La malattia terminale di Annamaria è l’unico alone di mistero in una pellicola dall’esito scontato, preconizzarne l’epilogo diventa pleonastico, individuarne nuances pericolose diventa quasi divertente per lo spettatore, esercizio psico-fisico di resilienza alla non novità, un’omosessualità che, grazie a Dio, la società sta accettando come sua declinazione naturale, ossimoro, però, pernicioso sul tema dell’affidamento, legge etica che nessun emendamento alla Cirinnà potrà mai defenestrare a semplice mainstream dei giorni nostri.

Oltre a Romoli e Ozpetek, la sceneggiatura, che si fregia anche della scrittura di Silvia Ranfagni, appare sparuta e scarna, vive picchi di puro estetismo solo nella transumanza emozionale dalla terraferma Italia alla soleggiata e ridente Sicilia, isola di sentimenti in balia dei clichè, il sangue blu sublimato dalle note di Mina e Diodato, una nonna che la Warner Bros Entertainment Italia ritrae con le sembianze di una Signorina Rottermeier, baronessa sui generis.

La fotografia di Gian Filippo Corticelli è esemplare, un gioco di chiaroscuri che illuminano il dettaglio intento a setacciare peculiarità mai espresse finora.

Apprezzabile solo da un punto di vista tecnico, “La Dea Fortuna” non affonda mai la lama nel burro delle aspettative inconsce di chi guarda, pecca di inventiva, prediligendo una cronaca di cui il pubblico può, francamente, fare a meno.

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