A ognuno, dunque, la sua stella, a tutti la luce, da qualunque parte essa provenga, da fuori come dicono alcuni, o da dentro come affermano altri.

Riordinando alcuni appunti, da anni ormai sepolti nella memoria del computer, ho ritrovato alcune riflessioni sulla linfa preziosa che i mistici hanno infuso nei secoli nel corpo, talvolta irrigidito, delle religioni e delle tradizioni spirituali. A disagio, negli anni in cui il radicalismo religioso andava imponendosi sulla scena mondiale con ripetuti atti di violenza, con qualche ingenuità, ho pensato allora, e vorrei continuare a pensarlo, che contrapporre alla forza degli uomini che si pretendono  difensori di Dio la mitezza e la tolleranza degli uomini spirituali, dei mistici, fosse il modo più idoneo per scongiurare scontri di civiltà e guerre di religione. Un’illusione? Forse. Cos’altro abbiamo da contrapporre all’odio se non l’amore? In fondo è solo amando che possiamo sperare di cambiare le cose. Ci riusciremo? Non lo sappiamo. Intanto possiamo cominciare a volerlo.

L’amore è incondizionato, ma si rafforza se è sostenuto dalla conoscenza. In questi giorni in cui sembra prevalere lo scontro, in cui le religioni sono usate come armi, in cui le tradizioni sono rivendicate per contrapporsi, per mascherare identità da sbandierare, possiamo trovare nel cuore delle religioni stesse l’antidoto contro questi mali.

Chi oggigiorno alimenta le nostre paure? È dall’Islam, che molte voci ci dicono che dobbiamo difenderci per non smarrire noi stessi, il nostro passato, la nostra civiltà.

Non è certo facile sottrarsi a un senso di disagio di fronte alla dimensione conquistatrice e militante che sembra talvolta caratterizzare la storia dell’islam. Occorre prenderne atto, per resistere alla tentazione dello scontro, della contrapposizione. Ci può essere d’aiuto sapere che nell’Islam persiste una corrente mistica, che si affianca a quella conquistatrice. È il sufismo, un deposito d’oro puro nel cuore dell’Islam. Le vicende del suo sorgere mostrano che le religioni si sono costituite attorno ad un nucleo scritturale incandescente, il quale, a contatto con l’ambiente, si è solidificato in pratiche legali e istituzioni, necessarie allo sviluppo del senso di appartenenza e alla loro diffusione, lasciando comunque sempre aperto il confronto vivificante con il testo fondatore (Torah, Evangelo, Corano, tradizioni spirituali…).

Tra le pratiche che l’Islam delle origini privilegia, e già la parola spaventa, c’è il jihâd, la guerra santa. Ma nel tempo l’Islam ha saputo trovare al proprio interno la capacità di limitarne la portata, arricchendolo di significati spirituali: da “sforzo sulla via d’Allâh per promuovere il trionfo della Religione”, esso è si venuto tramutando in lotta contro le passioni, in sforzo ascetico per far spazio all’Uno, in scontro supremo con il Dio che esalta e annienta. La storia di questa trasformazione, mai definitivamente acquisita, viene fatta risalire a un hâdith, un detto attribuito al profeta, molto antico, da cui i sufi hanno saputo estrarre il meglio, inverando il principio secondo cui “scriptura crescit cum legente”, il testo ispirato o che si ritiene tale, cresce con colui che lo legge. Si racconta che Muhammad, di ritorno da un’impresa guerresca, esclamasse rivolto ai suoi compagni: «Eccoci di ritorno dal “jihâd minore” (al-jihâd al-asgar), pronti a impegnarci nel “jihâd maggiore” (al-jihâd al-akbar), quello delle anime».

Certo, la religiosità islamica conserva questa combattività, questa sorta d’impazienza di vedere realizzata una giustizia che solo il riconoscimento dell’Unicità di Dio potrebbe garantire. Ma questa dimensione guerresca è convissuta con quella mistica anche se, in momenti di oscuramento e di risentimento, il  “piccolo jihâd” può sempre ricomparire con la sua virulenza. I sufi, gli uomini spirituali, con la loro pratica, il loro esempio, la loro dottrina, sono stati e stanno ritornando ad essere, in alcuni paesi islamici, un baluardo contro il pericolo della violenza sempre incombente nelle religioni che si proclamano rivelate. La violenza e il ricorso alla forza sono tratti presenti in tutte le grandi religioni, soprattutto nelle fasi di espansione trionfante o nei periodi di crisi: cristianità e islam non ne sono andati esenti, in periodi diversi ma convergenti nella dinamica e nelle finalità.

La vicenda di Hallâj, il grande mistico di Bagdad, martirizzato nel 922, ha insegnato come sia possibile radicarsi in una tradizione fortemente connotata riuscendo tuttavia a trascenderla, a purificarla, a renderla più leggera. Abbandonando l’abito bianco (sûf) per rivestire il caftano dei soldati, soggiornando a lungo nei conventi fortificatiti sulle frontiere della casa dell’islam, egli ha conosciuto tutte le forme del jihâd (discipline ascetiche, esercizi spirituali, apostolato missionario…), per stabilirsi infine definitivamente nel “jihâd supremo”, quello che esalta la dimensione spirituale.

Le diverse tradizioni religiose, ognuna elaborando un lessico e delle pratiche corporali proprie, in maniera sorprendentemente concorde nel loro dinamismo, si propongono come vie verso la realizzazione di personalità spirituali adulte. Su questo terreno comune è possibile avviare un vero dialogo tra le religioni: è difficile, infatti, sostenere che una via possa dirsi privilegiata rispetto ad altre; per strade diverse si procede verso l’unica verità, verso la comune conoscenza, che non è negata neppure a chi una religione non l’ha o non la vuole avere, contento di rispondere alla propria coscienza. Hallâj ha confidato ai suoi discepoli il succo della sua meditazione in queste parole :

Ho riflettuto su tutte le denominazioni confessionali, sforzandomi di capire, e ora io le considero come un unico Principio dalle ramificazioni molteplici. Non chiedere dunque ad un uomo d’adottare tale denominazione confessionale, perché ciò l’allontanerebbe dal Principio fondamentale, e certamente è lo stesso Principio che deve venire a cercarlo, Lui nel quale si svelano tutte le grandezze e tutti i significati; e l’uomo, allora, capirà.

Con queste parole Hallâj sembra voler dire che lo specifico delle religioni è di alludere, di essere dei segni: quando arriva lo Sposo non si ha più bisogno di segni, cadono i veli; nella camera nuziale non hanno accesso le religioni, esse restano sulla soglia, perché dentro, nel silenzio, nella coscienza, l’uomo inerme e fragile incontra il divino, il trascendente, o l’eccedente, si smarrisce e si ritrova nel tutto.

Sul terreno della spiritualità si può avviare un dialogo autentico tra le religioni. Esso non sarà mai una prassi per cancellare le differenze ma uno strumento di mutua sollecitazione al fine di completare e valorizzare la peculiarità di ognuna. Lo ha capito bene Simone Weil per la quale dialogare significa scegliere il punto di vista dell’altro, conoscerlo dall’interno, senza temere per la propria identità perché il confronto rafforza il sentimento della fedeltà alla propria fede. Il confronto, indispensabile, avrà lo scopo di far meglio capire quel modo proprio, unico, di alludere alla giustizia, senza mirare a costruire una sorta di credenza universale. Stimolati dall’autenticità spirituale di coloro con cui ci si confronta, è possibile scoprire il valore della fedeltà a quel principio ispiratore, a quella leva fuori del mondo che a ognuna delle religioni è stata trasmessa. Occorre non andare al di là, ma al cuore di ogni pratica religiosa, dove ha sede l’amore.

Il vero uomo spirituale non ha paura del confronto, si riconosce nella libertà interiore che Ibn ‘Arabî (1165-1241), il maestro ammirabile (al-shaykh al-akbar), erede della stagione mistica incarnata da Hallâj, descrive in questo sorprendente poema:

«Ora il mio cuore è capace d’accogliere ogni forma.

Esso è convento dei monaci e tempio degli idoli;

È prato delle gazzelle e la Ka’ba del pellegrino,

Le tavole della Torah e il testo del Corano.

Mia religione è l’Amore, ovunque portino le sue cavalcature.

L’Amore è la mia religione e la mia fede».

Questi versi non vogliono somministrare anestetici per sottrarsi alla durezza dei tempi bui in cui viviamo, ma suggeriscono sommessamente che delle religioni purificate e dialoganti possono concorrere, insieme agli strumenti dell’economia, della politica e della cultura,  a formare uomini pacifici, adulti, liberi e universali.

A ognuno, dunque, la sua stella, a tutti la luce, da qualunque parte essa provenga, da fuori come dicono alcuni, o da dentro come affermano altri.

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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.

1 COMMENTO

  1. Lei riesce ad insegnare anche solo scrivendo di un “poco” sottratto al grande “tutto”. Meraviglia di chi attraversa la vita che ci sia luce o tenebra. Si percepisce il buono, come di un pane appena cotto o di una casa riscaldata e tolta ad una sera d’inverno, come di un abbraccio. Il buon Dio si è ritirato, dicono, dopo aver creato perchè l’uomo fosse anche libero di creare e distruggere, di spazio e vuoto, bene e male. Uomini come Lei continuano ad edificare la speranza, la giustizia e la bellezza.

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