«Scommetto che dal canto suo l’anno che viene spera che sia la gente a essere migliore»

(Mafalda, Quino)

Vi è mai successo che, ancora una volta, abbiate visto una dicotomia nello specchio? Siamo nomadi o siamo stanziali? Abbiamo un’opinione o ne abbiamo centomila? Siamo legati alla nostra terra o ci lasciamo rapire da più lande?

Come si fa ad essere una ed una sola cosa?  Quante idee cambiamo, senza mai cambiare chi siamo?

Volevamo vivere tutta la vita accanto al mare, ci siamo scoperti capaci di vivere ai piedi di una montagna; volevamo essere pigri ed odiare i bagagli, non facciamo che viaggiare su e giù per un’Italia che si crede lunga solo lei e smontiamo e rimontiamo valigie come non ci fosse un domani; vivevamo di terrore ed ansia per le stazioni ferroviarie e per gli imbarchi aeroportuali, viaggiamo di giorno e di notte, soli o con due anime, leggendo tabelloni ed inseguendo ritardi, arrivi e ri-partenze; volevamo fermarci e dire “eccomi, ce l’ho fatta”, abbiamo di nuovo duemila e passa pagine sulla scrivania da infilare nella testa; volevamo scendere a casa “di giù” dal 21 al 27 dicembre e risalire a casa “di sù” il 28, siamo scesi molto prima e resteremo.

Per quanto siano esempi, lo sappiamo, se ci guardassimo dall’esterno vedremmo esattamente quanto normalmente detestiamo: solo incoerenza.

E sarà forse per questo che non riusciamo a darci pace.

Perché non tutto di noi è quello che sembra.

In nove milioni di idee repentinamente e di fatto mutate, ciò che non cambia siamo esattamente noi, che ci adattiamo, ci smussiamo e ci abituiamo, ma non possiamo non rispondere a ciò che i primordi vogliono di noi.

Ed ecco che viviamo a tratti, bene davvero in ogni posto, male sul serio nel medesimo.

Perché non esiste anno nuovo che possa rendere tondo ciò che è nato quadrato.

Come stai? Non me lo dici mai veramente”, una qualche voce ci avrà forse chiesto in un passato non troppo remoto.

Come stai?”, meno minuziosamente, ma non per questo meno sinceramente, ci avrà forse chiesto qualcun altro in un presente indicativo.

E potrebbe essere pericolosamente l’incalzante incapacità di rispondere che segna, in maniera esponenziale, ogni simbolica fine di un anno, che poi è un’epoca, forse ogni volta una vita. Come si potesse dare una cadenza fissa alle cose, come si potesse risorgere ogni volta, illudendosi di essere eterne fenici.

Potremmo aver mosso un inconsapevole passo verso una necessaria, quanto sconosciuta immobilità: non è un male e non è il suo contrario, è la stasi. Magari quest’anno ci ha chiesto davvero molto, per averci lasciati così, murati nonostante il continuo movimento color argento vivo.

E magari è che non c’è stata per ora risposta dalla vita, né noi abbiamo saputo darla ed abbiamo fatto praticamente ovunque un passo indietro.

Nankurunaisa, dicono in Giappone: con il tempo si sistema tutto. Potrebbe essere un bel pensiero ad effetto, farebbe anche il botto, eppure a capodanno non funziona, stiamo pensando, perché non c’è niente di rotto che vada messo a posto e niente di sano che vada celebrato.

Come stai? Per niente male e ancor meno bene.

Anche io proverei a chiedervelo e, guardandovi tradire davvero il massimo della sincerità che potreste esprimere, mi aspetterei in risposta un non sto e non ho niente da chiedere in questo momento.

L’unico desiderio potrebbe essere evitare come la peste, il 31 dicembre, il discorso in tv del Presidente della Repubblica. Personalmente lo rifuggo da sempre quel momento ansiogeno e ripetitivo, non lo vorrei nemmeno ora.

Sarà così questo giro di boa per ognuno o per me? Pseudo-sorda, pseudo-muta, pseudo-cieca, dietro una parete spuntata di botto in stile fungo, su cui far scivolare ogni cosa come farebbe l’olio?

Salvo il sapere perfettamente che, dietro l’angolo ci aspetta il raccolto e da lì le somme sulla qualità dell’annata.

Vi auguro somme più umane e meno scientifiche, più vive e meno logiche, più tonde e meno spigolose, più vicine ai vostri addendi: che siano disordinati e spettinati quanto basta, che scambiando il loro ordine modifichino i totali.

L’inferno è pura sottrazione, è togliere tutta la vita e tutto l’amore da tutte le cose.

E allora mutuo un certo Sant’Agostino e con lui vi auguro che il senso di un qualunque nuovo anno sia quello della misura dell’amore, che è amare senza misura.

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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.

2 COMMENTI

  1. Ho sempre fatto fatica e ancora oggi la faccio, a gestirmi la ciclotimia compulsiva delle solite feste. Sottraggono, ti rubo un verbo, il bello da ciò che a fatica si è costruito nei giorni in cui, a torto, tutti non trovano un motivo per festeggiare. La vita è il regalo, ogni giorno. Mi ritrovo in ciò che scrivi, ho viaggiato mezza vita per lavoro, ho patito la troppa solitudine e la troppa “presenza”. Ho odiato e amato gli stessi luoghi. Avevo un solo rimedio per ristabilire l’equilibrio perso: leggere, parlare e ascoltare. Considerare la possibile, meravigliosa esistenza di una fede, un amore, nella distanza tra me e la persona con cui mi intrattenevo anche solo per pochi minuti. E quando leggo le tue storie, mi ricordo dell’esistenza di una universale insensatezza che non può e non deve mai essere più grande di quello che la mano ha scelto di toccare per trasmettere al cuore. Odysseo è una casa.

  2. Mi hai fatto tornare in mente il ‘Noli me tangere’ del Correggio, dove la mano che sembra allontanare la Maddalena, segna con l’altra la via che la sua passione deve seguire. Parafrasandoti, esattamente quella del cuore. I colori di quel dipinto in cui non c’è traccia di buio: del resto casa è esattamente il luogo in cui riusciamo ad orientarci, in qualche modo ed in una qualche confusione, anche in assenza di luce. Non funziona troppo diversamente con le persone. Sottoscrivo: Odysseo è casa.

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