
«L’unico modo per iniziare a fare qualcosa è smettere di parlare e iniziare a fare»
(Walt Disney)
Sono una mamma insegnante.
Sono un’insegnante e sono una mamma.
Sono una mamma, insegnante, al tempo del Covid.
Come tutte le persone nella mia condizione mi sono reiventata in pochi giorni, sono stata assalita da una rivoluzione senza pari, l’ho affrontata, ne sono in qualche modo uscita.
Ho imparato molto ed ho lavorato ininterrottamente. Sono stata molto stanca, spesso spaventata, ma mai mi sono sentita sull’orlo della sconfitta, dal momento che ho sempre ritenuto di essere privilegiata. Ho potuto proteggermi restando in casa e, sebbene con lo spauracchio di una quasi più probabile diagnosi di schizofrenia acuta, ho potuto tenere con me i miei figli. Ho lavorato il quintuplo, pagata come così non fosse, ma pagata.
Tutto ciò ha fatto di me una donna che non si è mai riconosciuta il diritto di lagnarsi, non solo al cospetto dei medici e degli infermieri, ma di coloro che si sono ammalati, di coloro che non hanno mai smesso di dover essere fuori casa, di coloro che non hanno più potuto mettere il pane a tavola. Io potevo e posso solo rimboccarmi le maniche e fare tutto ciò che sono chiamata a fare, nel miglior modo possibile.
Il punto è che siamo a tre giorni dall’inizio della scuola, qui dove vivo. Ancora una volta, almeno nella mia scuola, lavoriamo ininterrottamente da settimane, tutti. Dal più alto, al più basso in grado. Non c’è mai anima viva che stia ferma: devo ammettere che la mia scuola non si risparmia, nel bene e nel male.
Eppure… eppure temo siamo molto lontani dal poterci onestamente dire davvero “pronti a partire”, per tutta una serie di ragioni che non starò ad elencare, perché sono certa che ognuno di noi abbia il suo sacrosanto delirio.
In questo stato che non ho molte parole per definire, però, mi rendo conto che siamo davanti al più grande cambio di registro che si ricordi e temo si tratti di imparare innanzitutto a convivere con questo ospite, spaventati dal nuovo che, mai come ora, non possiamo più considerare come ostacolo, stante la posta in gioco, la quale nell’ordine vede sul podio: diritto alla vita, diritto alla salute, diritto all’istruzione.
Il diritto al lavoro? Incontestabile. Proprio per questo l’ostacolo, non so nemmeno bene con quale colpo di coda, deve assolutamente diventare una risorsa. Non c’è scelta. Falliremo? Può essere. Ma dobbiamo provarci obbligandoci a non derogare.
Non riesco, per spiegarmi meglio, a mettermi allo specchio pensando a tutto quanto dovrò fare nel rispetto dei protocolli, dandomi già delle scuse. Parto con l’idea per la quale no, non mi è consentito sbagliare. Non devo. E se mi capita? Non deve capitare!
Per carità, è un discorso che faccio a me stessa: sono il mio peggior nemico e per questo sto molto bene attenta quando si tratta di ascoltarmi. È questo il mio personalissimo quadro di riferimento, in cui penso non sia momento di demagogia spicciola, ottimismo ad ogni costo o pessimismo nero carbone: a voler essere realista vedo una macchina migliaia di volte più grande di me, che sta vestendo i panni di Ercole ed ha settantadue ore per il primo nuovo passo.
Le responsabilità, le critiche, le proposte non verranno sciorinate in queste righe, che si concluderanno con l’unica idea che mi appare illuminante: siamo esseri comincianti.
È necessario un nuovo e reale, tangibile, primissimo passo e credo che fra settantadue ore sarà il tempo buono per chi vuole farlo sul serio.
Del resto, “l’essere umano deve sempre affrontare due grandi problemi: il primo è sapere quando cominciare; il secondo è capire quando fermarsi” (Paulo Coelho).
Bene, il secondo problema non è un problema attuale: ogni cosa va affrontata quando si presenta, per questo: ad maiora, anche ora: soprattutto ora!



























