
«La Promessa non è solo un debito: la Promessa è un nome proprio con la lettera maiuscola che si sostituisce al tuo ogni volta che la pronunci. Non mantenerla equivale a perdere te stesso, per non ritrovare mai più quel pezzo di te»
(Eich)
Incontrare qualcuno è sempre uguale a iniziare una conversazione, o meglio, un dialogo. Poche battute, solo un saluto, spesso un gesto, un movimento del capo, della mano: è sempre uno scambio linguistico che non si può controllare.
Ci sono volte in cui hai mosso male anche solo le dita e vuoi cominciare da capo, volte in cui poche battute sostituiscono mesi di chiacchiera, volte in cui è balbettio: normalmente subito dopo ti viene in mente tutto quello che avresti potuto dire e, inesorabilmente, non hai detto.
Dopodiché ognuno di questi dialoghi si trasforma in un monologo, continua a porte chiuse, cresce, regredisce, si ristruttura. E sedimenta, spesso rimanendo nell’oblio di una cartella zippata e archiviata, nell’hardware del cervello.
A volte, invece, capita che gli incontri siano organizzati e allora lo sai, ti giochi tutto nei primi venti minuti: specie se quegli incontri sono con una classe. E quando l’incontro è il primo, inizi a sentire che venti minuti per quella partita che durerà un anno sono troppi: dieci, al massimo dieci te ne saranno concessi per sfondare o fallire.
Quel primo incontro avrà la forma di una promessa e se lo perderai avrai a che fare con un inferno per mesi e mesi, se vincerai dovrai mantenere il tiro, non venire meno: le promesse sono quanto di più prezioso esista, con i ragazzi di più.
Così, pregna della tua maturità pensi di poterti preparare, di poter leggere, di poter organizzare schemi, idee, discorsi e volendo, lo fai pure, ma solo perché sai che disattenderai ogni singolo proposito. Ti stai creando una coperta di Linus necessaria al bambino che è in te, per proteggere l’adulto imbecille che trema e non si convince a crescere e camminare con le sue gambe.
E arriva il momento di scendere in campo, peggio dell’Imperatore Costantino a Ponte Milvio: lui doveva incontrare Massenzio e aveva sognato Gesù Cristo che gli aveva detto “in hoc sogno vinces”. Tu devi incontrare un’orda di ragazzi di non meglio specificata provenienza e Gesù Cristo sembra non pensarti nemmeno di striscio.
Arrivi, sorridi, avvisi che mai sarai seduta “alla” cattedra e ti vedranno solo seduta “sulla” cattedra, mentre fai esattamente quello: poggi il sedere sul piano del tavolo. Li guardi, li osservi, fai silenzio, hai speso il primo minuto.
E poi… poi niente, addio preparativi, addio schemi, addio idee. Accavalli le gambe, metti i palmi delle mani sul tavolo subito dietro al tuo busto e lasci che qualsiasi cosa ti stia possedendo, lavori al tuo posto. Ancora non cammini con le tue gambe: lasci andare avanti il doppio che è in te e che ti guida senza mai dirti dove cavolo state andando.
Non ti interrompono, alzano la mano per intervenire, lo fanno, sorridono, ridono e tu, che sei lì per giocarti quella partita lunga un anno che sapevi bene essere quella di provare a insegnare loro a scardinare stereotipi e pregiudizi, stai facendo l’unica cosa di cui sei capace: ti stai mettendo a nudo, ti stai offrendo e preghi di ottenere un’offerta in cambio.
I dieci minuti sono scaduti da cinquanta, la campanella sta per suonare, l’aria in aula è carica di sentimento, una tua alunna sta piangendo: entra qualcuno. Non lo guardi nemmeno, non distogli lo sguardo dai tuoi ragazzi, alzi la mano e porgi il palmo contro l’intruso: stop, fermati, non puoi interrompere. L’intruso allora procede in silenzio, si mette dietro le tue spalle, aspetta. Lo sai che sta osservando, ma a te non interessa… procedi.
Due minuti dopo suona la campanella, l’atmosfera si stempera e riecheggiano due esclamazioni…
Intruso: “Posso assistere anche io la prossima settimana?”
Alunna: “Questa è la prof. migliore che io abbia mai conosciuto, ora ve lo dico!”
E niente. Nuda Veritas. Ti sei donata. Hai vinto. Gesù Cristo è arrivato a ricordarti che il segno in cui potevi vincere eri semplicemente tu e ora… ora al lavoro, bisogna mantenere questa promessa.




























I nostri alunni riconoscono chi di noi docenti parla loro con il cuore. Il rapporto è fatto da fiducia e stima reciproca in cui non esiste superiorità di uno rispetto all’altro, ma solo un vicendevole supportarsi in un arricchimento continuo.
Loro lo avvertono e molto prima della fine, scelgono, poiché quando te li porti in silenzio a casa, uno ad uno, non possono che sentirlo. Fino a saperlo. Alcune cose non si costruiscono: sono, sono e basta. Come Allah per i musulmani. Balkafià: è così e basta.