Applausi e fischi da stadio di una folla in delirio che crede così di aver celebrato il rito di purificazione e la promessa di un futuro luminoso a prescindere

Caro Direttore,

la catastrofe di Genova avrebbe meritato un maggior rispetto per i morti, che sono stati tirati per la giacchetta in uno scorcio di campagna elettorale irrispettosa e inopportuna.

Salvini e Di Maio, i tribuni della plebe nazionale, ne hanno fatto uno spettacolo sconcio, mostrando cappi (per adesso) metaforici, invocando la gogna per i loro avversari politici, invece di cercare di capire dov’è che lo Stato si è inceppato, in quale pastoia burocratica, in quale ufficio non all’altezza del compito.

La tragedia del ponte Morandi è stata conseguenza di tutto questo, non della cattiveria degli avversari politici, non dell’avidità di un imprenditore, Benetton, fino all’altro ieri simbolo del made in Italy e della nostra capacità imprenditoriale nel mondo. Sondaggi in crescita per i tribuni, credibilità italiana ancora in discesa, dopo la tragedia sul Polcevera.

I funerali solenni sono stati l’acme del deprimente (almeno per me) spettacolo. Applausi e fischi da stadio di una folla in delirio che crede così di aver celebrato il rito di purificazione e la promessa di un futuro luminoso a prescindere. La solennità del momento, la “cattedrale” della Fiera, il discorso (piuttosto ovvio) del cardinale Bagnasco rendevano quella promessa quasi “sacra”. L’uso della religione che tanto piace ai regimi (e qualche volta anche alla curia romana) ha avuto a Genova la sua riconsacrazione, a spese dei diciotto morti, perché gli altri venti hanno preferito il silenzio e la preghiera. Le famiglie che si sono fidate dello Stato hanno trovato una sponda solo in Mattarella. Per il resto Di Maio e Salvini non hanno perso l’occasione di celebrare se stessi.

Ho tutto il rispetto per le famiglie che hanno accettato i funerali di Stato. Ma, per il nulla che vale, sto con i “morti privati”. Perché lo Stato non è Renzi ieri, Di Maio oggi, Salvini domani. Lo Stato è lo Stato.

Delle responsabilità personali e di ruolo si occupa la legge, non le folle inferocite con le sue ghigliottine. La giustizia populista si fa sulla pelle dei morti, che non hanno colore, la giustizia delle democrazie si fa nelle aule dei tribunali.

Sto con i “morti privati”, anche loro senza colore, e le loro famiglie forse più incazzate, che non hanno rifiutato il rito religioso, hanno rifiutato la passerella degli opportunismi.


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Pugliese errante, un po’ come Ulisse, Antonio del Giudice è nato ad Andria nel 1949. Ha oltre quattro decenni di giornalismo alle spalle e ha trascorso la sua vita tra Bari, Roma, Milano, Palermo, Mantova e Pescara, dove abita. Cominciando come collaboratore del Corriere dello Sport, ha lavorato a La Gazzetta del Mezzogiorno, Paese sera, La Repubblica, L’Ora, L’Unità, La Gazzetta di Mantova, Il Centro d’Abruzzo, La Domenica d’Abruzzo, ricoprendo tutti i ruoli, da cronista a direttore. Collabora con Blizquotidiano.  Dopo un libro-intervista ad Alex Zanotelli (1987), nel 2009 aveva pubblicato La Pasqua bassa (Edizioni San Paolo), un romanzo che racconta la nostra terra e la vita grama dei contadini nel secondo dopoguerra. L'ultimo suo romanzo, Buonasera, dottor Nisticò (ed. Noubs, pag.136, euro 12,00) è in libreria dal novembre 2014. Nel 2015 ha pubblicato "La bambina russa ed altri racconti" (Solfanelli Tabula fati). Un libro di racconti in due parti. Sguardi di donna: sedici donne per sedici storie di vita. Povericristi: storie di strada raccolte negli angoli bui de nostri giorni. Nel 2017 ha pubblicato "Il cane straniero e altri racconti" (Tabula Dati).