La valle che plasma

Varallo ti prende, ti scuote, ti modella, ti lascia segni indelebili. Non importa da dove vieni, la valle ti entra dentro e, piano piano, ti fa diventare parte di lei. Marisa Pesenti lo sapeva bene. Non era nata in Valsesia, ma in una valle vicina, eppure la valle di Varallo l’aveva plasmata più di quanto lei avrebbe mai immaginato. Quando la incontrai, era una donna con i capelli corti, bianchi come la neve che ricopre le montagne d’inverno, ma con un’espressione che tradiva una gioia viva e autentica. Era una signora un po’ in carne, non obesa, ma con una presenza che riempiva la stanza. I suoi occhi scuri, lucidi, erano come finestre spalancate su un mondo fatto di fatica e di storie, di solitudine e di coraggio. Un volto segnato dalla vita ma capace di sorridere con leggerezza, come chi ha imparato a non prendersi troppo sul serio.

«La valle ti cambia, sai?» mi disse quasi subito, mentre sistemava alcuni oggetti sul tavolo davanti al suo negozio, quel Al Ciadel di cui andava tanto fiera. La porta del negozio era sempre aperta, come un invito silenzioso ad entrare, a perdersi tra mucchi di vestiti d’epoche diverse, oggetti curiosi, vecchi gioielli, e ogni sorta di piccoli tesori che raccontavano storie dimenticate. «Non importa se non sei nata qui. La valle ti entra dentro e ti trasforma. Io sono arrivata qui dieci anni fa, ma ormai sono una di loro.» Marisa aveva quella forza tranquilla delle donne che hanno conosciuto la durezza, che hanno dovuto costruire intorno a sé delle corazze invisibili. Mi raccontò di sua madre, una donna “fredda”, diceva, ma non nel senso di insensibile: era la freddezza di chi deve resistere, di chi ha imparato a non mostrare troppo, perché altrimenti la vita, qui in valle, ti travolge.

«Mia madre era così,» continuò, «come molte donne di queste montagne. La vita ti plasma, ti fa diventare dura. A dieci anni già facevano le inservienti nelle case delle famiglie ricche. Non c’era altro modo per sopravvivere.» Mi parlò di quel tempo con un misto di nostalgia e rassegnazione. La valle era dura, le giornate interminabili, il lavoro pesante e spesso solitario. Gli uomini partivano per cercare fortuna altrove, lasciando a casa le donne, che dovevano prendersi cura di tutto: della campagna, degli animali, dei figli. A volte portavano con sé anche le culle per non lasciare i bambini soli mentre lavoravano nei campi.

«La testa dura ce l’abbiamo per forza,» disse, sorridendo con un lampo negli occhi. «Altrimenti non saremmo arrivate a questo punto.»

Il negozio di Marisa, Al Ciadel, è una specie di santuario del passato e del presente, un luogo dove ogni oggetto racconta una storia, una vita. Vestiti di epoche diverse, oggetti d’antiquariato, gioielli fatti a mano — tutto disposto in un disordine che, però, pare avere un suo senso nascosto, come se ogni cosa sia al posto giusto nel caos. Un tavolo di legno rettangolare, davanti all’ingresso, è sempre pieno di ogni sorta di oggetti: vecchie borse, collane di granati, libri ingialliti, foulard, bottoni e scatole di latta — un pasticcio ordinato, appunto.

«Guarda queste collane di granati,» mi mostrò, prendendone una e facendola brillare alla luce. «Le pietre rosse della valle. Le trovavano nelle discariche dei ghiacciai, quei ghiacciai che ancora oggi nascondono segreti.» Mentre parlava, era come se la valle parlasse attraverso di lei. Le sue parole dipingevano un quadro vivido di una terra aspra, fatta di fatiche e di piccole gioie, di un legame indissolubile con la montagna.

Fu allora che cominciò a raccontarmi della tradizione più preziosa che custodiva con orgoglio: il puncetto valsesiano. «Sai cos’è il puncetto?» mi chiese, con quel tono dolce e deciso che solo chi conosce una storia a fondo può avere. «È la nostra arte antichissima, la lavorazione con cui decoriamo le nostre camicie, la biancheria di casa, e ancora oggi i gioielli.»

Mi spiegò che le prime tracce di questa lavorazione risalgono addirittura al 1685, quando un atto notarile certificava la decorazione a “puncetto” di un grande fazzoletto bianco. «Il puncetto non è come l’uncinetto o il merletto,» continuò, «qui si usa solo un ago e del filo di cotone. Ogni punto, ogni nodo, è fatto a mano, uno dopo l’altro. La pazienza è il segreto: migliaia di piccoli nodi si uniscono per creare quei disegni preziosi, fatti di pieni e di vuoti, che sembrano piccoli cristalli di neve.»

Il nome stesso, puncetto, viene dal dialetto valsesiano, dove punc significa “punto”. E quei punti, combinati, danno vita a un pizzo così resistente che sembra un tessuto, capace di durare secoli. Marisa mi raccontò come i disegni fossero ispirati alla natura circostante: i cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve, le forme geometriche della montagna e dei boschi. Prima di iniziare a lavorare il filo, si disegnava lo schema su un foglio a quadretti, e poi, con infinita precisione, si annodava punto per punto. «Una volta,» mi disse con un sorriso, «questi pizzi decoravano i vestiti tradizionali, le camicie ricamate, la biancheria delle case.  Quella tradizione, come tante altre in valle, non era solo un’arte, ma una vera e propria testimonianza di resistenza e identità. Era il modo con cui le donne di Varallo avevano narrato la loro storia, con le mani e con il filo, in mezzo a una vita di fatica e silenzi. Mentre lei parlava, provava alcuni foulard decorati, avvolgendoli con cura attorno al collo. In quel gesto semplice, il racconto prendeva forma e la storia di quelle donne si faceva palpabile.

«Varallo è chiusa,» mi confessò con un sospiro, «ma chi ci vive dentro, chi la conosce davvero, sa che sotto questa scorza dura c’è un cuore grande. Basta voler vedere.»

Ricordo che il 28 giugno ero arrivata a Varallo con il cuore pieno di aspettative, venendo da Bologna in cerca di storie autentiche da raccontare. Non avevo idea di quanto quei giorni sarebbero stati importanti per me. Il 29 giugno tornai da lei, richiamata dalla forza delle sue parole e dalla profondità del suo sguardo. Sentivo che la sua voce portava in sé tutta la memoria della valle, il ricordo di chi aveva vissuto quella durezza, di chi l’aveva affrontata con coraggio e dignità.

Marisa era una di quelle persone che la valle aveva scelto, che la valle aveva formato come un artigiano plasma il legno grezzo. La sua fisiognomica, il modo in cui portava i capelli corti e bianchi, la pienezza del suo corpo non eccessiva ma sicura, e quell’espressione che alternava la gioia alla durezza, tutto parlava di una vita costruita a strati, con tenacia e amore. Ricordava come sua madre, con quella freddezza indispensabile, fosse riuscita a superare gli ostacoli di un’esistenza fatta di silenzi e sacrifici. Mi spiegò che la vita in valle imponeva un certo modo di essere: «Ti fa mettere delle corazze,» disse, «perché senza quelle, la vita qui ti spezza.»

Eppure, nonostante tutto, Marisa aveva scelto di restare, di costruire il suo piccolo regno in Al Ciadel. Ogni oggetto era un pezzo di storia, ogni vestito una testimonianza, ogni gioiello un ricordo antico. E così, tra i mucchi di vestiti, i foulard e i granati, tra le storie dei marmoristi partiti per Francia e Svizzera, tra i racconti di donne sole con i figli e con la fatica, si formava un tessuto vivo che narrava la Valsesia più vera, quella che non si legge sui libri ma si sente nel cuore.

Quando uscii da Al Ciadel, il sole era calato dietro le montagne, e le ombre della sera si allungavano sulle vie di Varallo. La contrada del burro, con gli ombrelli appesi a decorare la strada, sembrava un dipinto di una vita sospesa nel tempo. Sentii che avevo trovato qualcosa di prezioso, qualcosa che avrebbe accompagnato i miei passi da quel giorno in poi: la voce autentica di una valle che plasma, trasforma, resiste.