
«1. Un pesce legato appartiene a coloro a cui è legato.
2. Un pesce slegato è giusta preda di chi riesce a prenderlo per primo».
(Moby Dick)
Nel capitolo 89 di Moby Dick, Herman Melville non si limita a descrivere la caccia alle balene: ci offre una lezione di diritto e potere. Le antiche leggi marinare stabilivano che il pesce libero, ovvero “slegato”, non ancora arpionato, era di chiunque lo catturasse. Una preda aperta, vulnerabile, alla mercé del più forte. Il pesce legato, invece, già vincolato da una corda o da un diritto, era tutelato: nessuno poteva appropriarsene senza violare un codice condiviso.
Questa distinzione, apparentemente tecnica, oggi appare come una sorta di allegoria politica e morale. Gaza, esposta e indifesa, è il “pesce slegato”: nessun diritto la protegge, neppure la DUDU. Israele, con la sua forza militare e la sua strategia, è il pescatore che non riconosce confini, tranne quelli che vanno dal Giordano al mare.
Secondo l’ANSA, l’IDF ha avviato l’operazione “Carri di Gedeone 2”, schierando centinaia di carri armati, bulldozer e fanteria lungo il confine nord della Striscia. L’obiettivo è la conquista di Gaza City, con una previsione di mesi di combattimenti. Hamas, trincerato nei centri urbani e nei campi di sfollati, non mostra segni di resa. Scorrerà ancora tanto sangue, in particolare, come sempre, quello degli innocenti.
Nel frattempo, crescono le accuse internazionali: la Commissione delle Nazioni Unite ha sollevato il sospetto di crimini contro l’umanità, parlando apertamente di genocidio. Sta di fatto che la strada costiera di Al-Rasheed, unico varco ancora percorribile per i civili, si è trasformata in un fiume umano di disperazione: migliaia di civili in fuga, sotto i droni e le bombe.
Il pesce legato, oggi, ha il volto di un bambino che corre con la madre sotto i bombardamenti. Ha il nome di chi non ha più casa, né acqua, né voce. Eppure, anche in questa tragedia, c’è chi cerca di restare pesce libero: chi documenta, chi denuncia, chi invoca giustizia.
Del resto, la storia è piena di popoli legati, privati della libertà da imperi e conquistatori.
Penso alle città-stato persiane, sottomesse da Alessandro Magno.
Alle tribù galliche, ai Britanni, ai Cartaginesi, agli Ebrei, schiacciati dall’Impero Romano.
Alle popolazioni berbere, ai Copti, ai cristiani, assorbiti dall’espansione degli Arabi.
Agli Inca, agli Aztechi, ai nativi americani, ai popoli delle Indie, devastati dai colonizzatori europei.
Ai Tibetani, ai Curdi, ai Rohingya, agli Uiguri, ai Bosniaci, agli Ucraini e, ovviamente, ai Palestinesi: popoli che ancora oggi lottano per non essere definiti solo dalla corda che li trattiene.
Ma la storia è anche piena di pesci liberi, che hanno scelto il nuoto, la resistenza, la dignità.
Vado col pensiero a Socrate, che accettò la cicuta, ma non rinunciò alla sua libertà interiore.
A Giordano Bruno, che preferì il rogo al silenzio.
Ai partigiani italiani, che si opposero al fascismo.
Ai popoli baltici, che riconquistarono l’indipendenza dopo decenni di dominio sovietico.
Ai Vietnamiti, che resistettero a due imperi.
Ai Sudafricani, che abbatterono l’apartheid con la forza della coscienza.
Ai Polacchi, che sfidarono il totalitarismo con la fede e la cultura.
Ai Tunisini, che accesero la primavera araba con un gesto disperato e libero.
Alle donne iraniane, che oggi si tolgono il velo per rivendicare il diritto di essere.
A quanto pare, la Storia ha il passo lungo: spesso finisce per dare torto al dominatore di oggi, lo sconfitto di domani.
E così, essere pesce legato non è una condanna eterna.
Ed essere pesce libero non è una garanzia acquisita una volta per tutte: è il frutto di una scelta, spesso dolorosa, ma profondamente umana.
Montesquieu: «La libertà è il diritto di fare ciò che la legge permette».
George Orwell: «La libertà è il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire».
Herman Melville: «Cosa sono i diritti dell’uomo e le libertà del mondo, se non pesce slegato?».

























