
Una vita tra memoria e amore
Arrivai a Varallo il 28 giugno, in un pomeriggio dove il sole sembrava aver appena finito di dipingere di oro e arancio le vie strette e le pietre antiche di questa valle, che PAM definisce “la sua seconda pelle”. Il borgo respirava una calma antica, fatta di silenzi interrotti dal fruscio delle foglie e dal canto lontano di qualche uccello. Non sapevo ancora che in quel luogo avrei trovato un uomo che porta in sé tutta la storia di un tempo, intrecciata con le trame della natura e della vita. PAM non vuole che si dica il suo vero nome. Mi spiegò che le parole sono fragili, potenti e spesso ingannevoli. “Un nome,” disse, “è solo una parola, un’etichetta posta sulla superficie dell’essere, ma non ne svela la profondità.” Per questo si fa chiamare semplicemente PAM, un segno essenziale che racchiude una vita intera, fatta di incontri, di passioni, di silenzi e di parole sussurrate.
Quando venne a prendermi all’albergo, mi colpì subito la sua presenza calma, il modo gentile con cui mi guidò lungo le vie del paese fino a casa sua. Abita in un vecchio palazzo, uno di quelli che raccontano storie di tempi lontani, di vite passate e di sogni antichi. L’edificio ospita diversi appartamenti, tutti affittati, e PAM possiede uno spazio tutto suo: un piccolo appartamento adibito a biblioteca, con scaffali stracolmi di libri, e un altro dedicato all’archivio del suo prezioso collezionismo. “Questi oggetti,” mi disse indicandomi una cassettiera di legno, “sono la mia memoria. Le cartoline, più di dodicimila pezzi, sono finestre su mondi lontani, su viaggi e incontri che porto dentro di me.”
Mi raccontò di essere nato a Bussoleno di Susa, quasi al confine francese, una terra di montagna che lo ha formato con la sua durezza e la sua bellezza. Il volto di PAM è un palinsesto di esperienze. Quattro rughe profonde segnano la sua fronte, incisioni di pensieri lunghi, di notti insonni passate a riflettere. Le sue arcate sopraccigliari sono perennemente sollevate, come se fosse sempre sorpreso dal mondo che lo circonda, pronto ad ascoltare ogni minimo sussurro della realtà. Intorno agli occhi, le rughe d’espressione raccontano di risate sincere e di emozioni vissute senza riserve. La sua pelle, sorprendentemente ben idratata, brilla di una cura gentile che ha saputo mantenere nel tempo. I capelli bianchi e ordinati, sono un segno tangibile di rispetto verso sé stesso. Notai subito le sue mani: forti, di dimensioni medie, con ossature robuste che il tempo aveva appena sfiorato. Le unghie curate, pulite, raccontavano di chi ha vissuto con dignità e attenzione. “Le mie mani,” disse, “sono lo strumento con cui ho toccato la vita. Sono segnate dal tempo, ma non rovinate. Sono mani che hanno scritto, accarezzato, lavorato e amato.”
Quella sera, insieme ad altre persone, cenammo in un ristorante di Varallo. Il giorno seguente salimmo insieme sulla funivia che scorre tra il cielo e la montagna, sospesi in uno spazio di silenzio e luce. “Questa valle,” disse PAM, “è il mio rifugio, il mio luogo di pace. È qui che ho scelto di ritirarmi, dopo aver accompagnato Maria Rosa fino all’ultimo respiro.” La sua voce si fece sommessa, intrisa di una dolce tristezza ricordando la moglie che non c’è più. “Maria Rosa era di qui, di Varallo. Non ho mai spostato nulla della nostra casa. Le assenze, sai, abitano i luoghi come fantasmi gentili. La loro presenza ci insegna a parlare con le cose.” Pranzammo insieme a casa sua e fui io a cucinare. Preparai piatti semplici, ma pieni di significato, come una poesia fatta di sapori e gesti lenti. Mentre cucinavo, PAM mi raccontava di sé, di una vita vissuta tra Milano, Bussoleno e questa valle che ormai sente come casa.
“Dimmi, PAM, cosa ti tiene ancora vivo? Cosa alimenta questa luce nei tuoi occhi?”
Lui sorrise, e quelle rughe intorno agli occhi si fecero più profonde, come linee di un racconto antico. “È la curiosità, il desiderio di scoprire. Ho fame di vita, non solo di cibo. Amo le idee, le parole, le storie. Sto scrivendo un libro: «Condizionamento sociale», che poi si sta trasformando in «Riprendiamoci l’amore». È il mio tentativo di risvegliare qualcosa, di mostrare che, nonostante tutto, l’amore è la nostra più grande risorsa.” Mi parlò dei figli, uno legato alla cultura orientale, l’altro direttore di un ristorante dove tradizione e innovazione si incontrano. E dei nipoti, in particolare di uno che è boscaiolo e che porta con sé il profumo della terra e il rumore del bosco. “Quando arriva, sporco e stanco, porta un’energia primitiva che scuote la quiete della casa,” raccontò ridendo. “Ma è la vita, quella vera, che pulsa ancora forte.”
Discutemmo a lungo di introspezione e di psicologia, di Jung e dei suoi esercizi. “Uno dei miei preferiti,” spiegò, “è quello della stanza interiore: faccio chiudere gli occhi alle persone, immaginare un luogo che è solo loro, dove possono incontrare i loro pensieri, le loro paure e le loro speranze. È un rituale che aiuta a ritrovare pace e consapevolezza.” Guardando il suo volto, con la pelle vellutata che sfidava l’età, pensavo a quanto la montagna e il territorio avessero lasciato tracce indelebili nella sua fisionomia. “La gente qui,” disse PAM, “è un po’ chiusa, ti osserva, ti mette alla prova. Ma quando ti accettano, è per sempre. Varallo ti trasforma, ti insegna ad ascoltare la montagna, a riconoscere la sua voce segreta.”
Quando venne il momento di salutarci, PAM mi prese la mano con delicatezza e fermezza insieme. “Ultreia,” disse, “una parola antica, usata dai pellegrini per dire ‘avanti, sempre oltre’. Ti auguro di camminare così, con passo leggero ma deciso.” Ripartii per Bologna con il cuore colmo di gratitudine e occhi nuovi, consapevole che quel volto, quelle mani, quella voce portavano con sé un messaggio semplice ma profondo: ogni giorno è un’occasione per imparare, amare e crescere, oltre il tempo, oltre le parole.
Rientrata a Bologna, mi ritrovai immersa in un silenzio nuovo, carico di sensazioni e immagini che PAM aveva lasciato con sé, come semi piantati nella mente e nel cuore. Pensavo al suo volto, a quelle rughe profonde che non erano segni di stanchezza, ma di una vita intensamente vissuta, di pensieri che hanno solcato la sua fronte come il vento scava le montagne. Eppure, non c’era mai fretta nei suoi movimenti, nessuna urgenza forzata. PAM si muoveva con la saggezza di chi ha imparato a dialogare con il tempo, a non opporsi al suo fluire ma a lasciarsi cullare dalle sue correnti invisibili. Mi sembrava un uomo che aveva trovato un equilibrio delicato tra il desiderio di scoprire e la pazienza di aspettare, tra la forza di voler cambiare e la grazia di accettare ciò che non può essere cambiato. Il ricordo del suo sorriso, delle sue mani forti e gentili, del suono della sua voce che parlava di amore, di Jung, di montagne e di viaggi, mi accompagnava come una melodia sottile, un invito a osservare più attentamente il mondo che ci circonda. Forse, pensai, è proprio questo il senso più profondo della vita: imparare a riconoscere e coltivare l’amore, a liberarlo dai condizionamenti, a farlo crescere oltre le paure e le etichette.
Nei giorni successivi, mentre scrivevo, immaginavo PAM seduto vicino al suo archivio di cartoline, con lo sguardo perso tra ricordi e futuri possibili, tra la quiete della valle e la complessità del mondo. Un uomo che, pur avendo vissuto tante stagioni, non smetteva di cercare, di interrogare, di sorprendersi. Che aveva scelto la sua seconda pelle non per fuggire, ma per abbracciare la vita in tutta la sua fragilità e forza. E così, grazie a PAM, ho compreso ancora una volta quanto il volto di un uomo sia molto più di un’immagine: è un paesaggio, un racconto, un dialogo aperto con il tempo, con le radici e con il cielo. Un invito a guardare oltre, a leggere le pieghe dell’anima con occhi nuovi, più attenti e più gentili.
Ultreia, PAM. E anche noi, sempre avanti, sempre oltre.