
Il silenzio geme tra le palme spezzate,
un respiro d’isola, ferito e salmastro,
non trova la voce.
L’isola s’apre come una conchiglia infranta,
l’eco dei tamburi è ora un rantolo d’acqua.
I letti nuotano nella furia della natura,
naufraghi di legno e sogni,
e le case, nude come ferite aperte,
offrono le viscere al cielo.
Senza mura, senza tetto,
la miseria danza sull’acqua,
e il vento è una madre in lutto
che trascina nel grembo sabbia e ricordi.
Le centrali elettriche, ruggine e lamento,
dormivano già nell’ombra,
ora il buio è sovrano: un angelo cieco
che nega la forma del suo stesso volto.
Le correnti attraversano le case, le penetrano,
con braccia acquatiche che stringono radici,
con l’alito fresco dell’acqua
che culla e consuma quel che resta.
Si va interrati fino alle ginocchia
in un fango di velluto,
dove la speranza è una moneta arrugginita
che nessuno vuole più cambiare.
Cuba è un tremendo disordine,
una volta di sospiri e un piatto di catastrofe:
si mangia miseria dal fondo della vertigine,
si raschia la terra per ritrovare i passi perduti.
 
  
  
  
  
  
  
  
  
 
 
			 
		