
L’oppositore di Putin è deceduto lo scorso 16 febbraio. Non è la prima volta in Russia che un oppositore del Presidente muore in circostanze tragiche.
Alexey Navalny è morto. È morto nella colonia penale n°3 dell’Okrug autonomo di Yamalo – Nenets. Un laconico comunicato stampa, freddo e agghiacciante, come gli esiti di questa vicenda, ne ha dato comunicazione: “Navalny si è sentito male dopo la passeggiata, perdendo conoscenza quasi subito. Il personale medico è arrivato immediatamente ed è stata chiamata l’ambulanza. Sono state eseguite le misure di rianimazione che non hanno dato risultati positivi. I paramedici hanno confermato la morte del condannato. Si stanno accertando le cause della morte stabilita”.
Subito le agenzie di tutto il mondo hanno battuto la notizia della morte del principale oppositore di Vladimir Putin, lo zarindiscusso e irremovibile, e non sono mancate le reazioni politiche a questa morte. La Casa Bianca ha parlato “di una tragedia terribile “, Von der Leyen ha immediatamente spostato le responsabilità sul regime autoritario di Putin, mentre Tajani dice che “si perde una voce di libertà “.
All’inizio si è parlato di trombosi, associata anche ad un avvelenamento pregresso, quello del 2020, poi di sindrome di morte improvvisa. Sta di fatto che Navalny è solo l’ultimo oppositore di Putin morto in circostanze non proprio chiare. Molti sono i dubbi sull’incidente che ha tolto la vita a Prigozhin in agosto, dopo che quest’ultimo aveva provato a muovere i suoi mercenari verso Mosca.
I casi più noti sono quelli della giornalista Anna Politkovskaya, che aveva contestato gli abusi dei militari russi in Cecenia, freddata sul pianerottolo di casa sua il 7 ottobre 2006, non un giorno qualunque, ma quello del cinquantaquattresimo compleanno di Putin. Più inquietante fu la morte dell’ex agente del KGB Aleksandr Litvinenko, avvelenato da polonio in hotel di Londra. La colpa di Litvinenko era quella di aver accusato il regime russo.
Queste morti, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre, hanno fatto da preludio a quella di Navalny, un uomo coraggioso e indomito, che aveva avuto la forza di tornare in Russia dopo l’avvelenamento nel gennaio 2021, subito arrestato ai controlli in aeroporto. Navalny aveva eseguito una video-inchiesta su un palazzo sulla costa russa del Mar Nero, dotato di ogni tipo di comfort e orpelli dorati, secondo l’inchiesta costruito ad uso personale di Putin. L’aveva pubblicata due giorni dopo il suo ritorno in patria, a dimostrazione del fatto che non temeva nessuno ed era pronto a tutto, in nome della verità.
Dopo il primo avvelenamento, davanti ai giudici, Navalny era sicuro di chi fosse il mandante: “Non solo sono rimasto in vita e non mi sono lasciato intimorire, ho partecipato all’indagine sul mio avvelenamento, e abbiamo potuto dimostrare che è stato Putin a perpetrare l’attentato con la collaborazione del Servizio federale per la sicurezza. Io non sono stato la sua unica vittima”.
Un paio d’anni fa un amico mi aveva passato: Non tacete. Discorsi sulla libertà in Russia, di Alexey Navalny, che raccoglie, per l’appunto, i suoi discorsi, non tenuti nelle piazze e nei comizi liberi, ma nei tribunali, durante i processi. In quelle udienze si può sentire forte la voce di un uomo che pare gridare in un deserto ma che ha fatto scricchiolare i muri del potere moscovita. C’è una frase che mi ha colpito più di tutte: “Voi usate il passato perché non volete parlare del presente”.
Il passato grigio e ombroso dell’Unione Sovietica sembra essere tornato nella figura nostalgica di un uomo che mai forse ha accettato la fine di quel regime di paura e terrore, che mieteva vittime politiche nei gulag e che invadeva con una facilità disarmante gli Stati che cercavano un comunismo da un volto umano. Putin è il passato, un nostalgico satrapo che con i suoi metodi nasconde ai russi i drammi di un presente fatto di diritti negati ed esecuzioni. Il presente della Russia è morto con Navalny e con la sua misteriosa fine, che tanto misteriosa non è. Sembra morire ogni qualvolta i resti mortali non vengono mostrati alla madre, che, come una madonna addolorata, vaga in cerca del figlio per l’ultimo saluto.
Muore negli arresti dei manifestanti, non molti per la verità, che parlano per milioni di russi stanchi di essere privati dell’aria della libertà. Chissà come avrà festeggiato il presidente di tutte le Russie la fine del suo oppositore, magari seduto sullo scranno, intarlato e fatiscente, della passata gloria dell’Unione Sovietica.
Si può essere più o meno d’accordo con ciò che diceva Navalny, non sempre le sue opinioni mi hanno colpito, ma la libertà di parola dovrebbe essere un diritto inalienabile. Negarla significherebbe riesumare un passato di terrore e inganni e negare un confronto aperto, soprattutto in prossimità delle elezioni, che in Russia si terranno a breve.
Intanto Yulia Navalnaya, nonostante il dolore per la morte del marito, è pronta a continuare il lavoro del suo amato Alexey. E allora torna a scricchiolare il vecchio trono del presidente a causa dell’arcigna volontà di non mollare, di non seppellire il presente della Russia, prima ancora del futuro, che pare sempre più cupo e avvelenato.