
Sofia Corradi, la donna che ha cambiato il volto dell’istruzione europea
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Un coro di lingue per salutare chi ha fatto dell’incontro tra culture la sua missione.
Sofia Corradi ci ha lasciati lo scorso 17 ottobre. Era nata a Roma nel 1934, quando i ragazzi si chiamavano Balilla e le bambine Figlie della Lupa. Fin da giovane aveva fame di sapere e il coraggio di chi non si accontenta: laurea in Giurisprudenza con lode alla Sapienza, poi una borsa Fulbright che la portò alla Columbia University di New York per un Master in Comparative Law. Tornata in Italia, non si fermò: docente ordinaria di Scienze dell’Educazione, direttrice del Laboratorio di Educazione Permanente a Roma Tre, collaborazioni con ONU, UNESCO, l’Aia.
Il mondo era davvero la sua aula.
Potrei continuare su questa linea, ma mi limito ad aggiungere che Sofia Corradi era conosciuta ovunque, ben oltre i confini europei, come “mamma Erasmus”.
Se avessi una figlia, o magari una nipotina, mi piacerebbe si chiamasse Sofia. Un nome che racchiude un mondo: “Sapienza”. E mai nome fu più appropriato per Sofia Corradi. I Latini direbbero nomen omen: un nome che diventa destino, vocazione, missione.
E qual era la missione della sua vita? Creare un’Europa dei Popoli attraverso l’Istruzione, intrecciando lingue e culture, favorendo viaggi, accoglienza reciproca, scoperta e condivisione delle ricchezze altrui. Tutto nella consapevolezza di appartenere a una sola cittadinanza: quella europea.
Non tutti, io per primo, sapranno che questa visione era nata da un’ingiustizia vissuta sulla propria pelle. Nel 1958, dopo aver conseguito il suo Master alla Columbia University, a Sofia fu negato in Italia il riconoscimento degli esami sostenuti all’estero. Da quella ferita la scintilla, un’idea semplice e potente: creare un sistema che abbattesse barriere accademiche e culturali.
Mio malgrado, devo qui inserire una digressione. Mi chiedo cosa avrebbe pensato mamma Erasmus della neonata Carta Valore, prevista dalla bozza della Legge di Bilancio 2026. Sembra voler premiare solo i diciottenni diplomati, escludendo dall’attuale 18App chi non ha un diploma di istruzione superiore. Come a dire: se sei un parrucchiere, un meccanico, un estetista o svolgi altri mestieri manuali, il museo te lo paghi. Lo stesso vale per chi lavora nei campi o per chi è migrante. Il mio nonno e il mio papà erano braccianti, e mio padre è stato migrante: per loro non ci sarebbe stato Valore. Non c’è neppure per gli attuali migranti, molti dei quali miei alunni. Forse non siamo ancora tornati al 1967, come sostiene Christian Raimo, ma rischiamo di tornare al tempo dei Balilla, questo sì.
Fine digressione. Torno all’idea di Sofia. Nel 1969 scrisse il primo memorandum. Ci vollero quasi vent’anni di ostinazione, ma nel 1987 il sogno prese forma: nacque il Programma Erasmus. Da allora, milioni di passi hanno attraversato l’Europa: corpi, lingue, storie che hanno unito ciò che la geografia divideva. Oggi Erasmus+ è sinonimo di Europa viva: oltre 16 milioni di giovani hanno imparato, viaggiato, scoperto nuove prospettive grazie alla visione di Sofia.
Premi? Tantissimi! Ma il riconoscimento più grande resta la gratitudine di chi, grazie a lei, ha scoperto un’Europa fatta non solo di Trattati, ma di volti sorridenti e mani intrecciate.
E mi piace pensare anche a questo: quante amicizie sono nate, quanti cuori si sono incontrati, quanti amori hanno preso il volo grazie a mamma Erasmus.
Perché sì, anche così si costruisce una nuova Europa: non solo un progetto politico, ma uno state of mind, un modo diverso di appartenersi e di sentirsi cittadini del mondo.
Salutando Sofia, mi piace pensare che ogni volta che uno studente o un docente partirà per un Erasmus, il suo sogno continuerà a camminare con loro.
Allora semplicemente grazie, mamma Erasmus! Fai buon viaggio.
Dedicato a chi ancora dubita che un’idea, quando è nutrita da passione e tenacia, possa cambiare il mondo. E che una sola persona possa davvero fare la differenza.
Le parole di Sofia:
«Le idee veramente nuove non si hanno a 50 o 60 anni, ma quando si hanno 20-25 anni. È allora che bisogna credere nei propri sogni: possono diventare realtà, ma serve lavorarci con ostinazione».
«Non parliamo di uno strumento per trovare lavoro, ma di un sogno. Chi lo ha vissuto lo racconta come si racconta un innamoramento: chi non l’ha provato non sa cos’è, chi l’ha sperimentato sa che è una cosa bellissima».
«Studiare all’estero mi ha cambiato la vita, ed è quello che ancora oggi racconto agli studenti».
«Al ritorno, lo studente che partecipa all’Erasmus non diventa tanto un migliore ingegnere, quanto una migliore persona».
«L’ho fatto con spirito materno, come fa ogni mamma che prova a rendere migliore il futuro dei figli».



























