«Se vuoi correre un miglio, corri un miglio. Se vuoi vivere un’altra vita, corri una maratona»

(Emil Zatopek)

Come ai miei dodicivirgolacinque lettori sarà già noto, domenica scorsa, 2 novembre, ho corso la maratona di New York assieme a mio figlio Damiano e ad altri sessantamila pazzi accorsi da ogni angolo del mondo.

È stata davvero la maratona dei record: ben 59.232 runner hanno tagliato il traguardo, tra cui 2.566 italiani, il gruppo più numeroso dopo i padroni di casa. Il primato precedente apparteneva a Londra 2025, che lo scorso aprile aveva visto 56.640 finisher: New York ha dunque spodestato la capitale britannica dal primo posto nel Guinness dei primati.

Potrei scrivere mille cose: raccontarvi le mie emozioni, snocciolare aneddoti, provare a dipingere scene e volti.

Scelgo di partire da alcune domande che ogni maratoneta si è sentito rivolgere almeno una volta nella vita:
«Hai vinto?»;
«Ma se non hai vinto, perché ti hanno dato la medaglia?»;
«Quanto ci hai messo? Due ore?»;
«E chi te lo fa fare se non ti danno un premio? Hai pure pagato l’iscrizione!».

Domande spontanee, certo, ma profondamente rivelatrici. Che un po’ mi divertono e per altri aspetti mi fanno riflettere. Perché evidentemente c’è chi pensa che si corra solo per vincere.

E così, spiegare che si corre per esserci, per sentire il tuo corpo che attraversa e supera i propri limiti, è impresa ardua. Dire che la medaglia, in maratona, non è per chi arriva primo, ma per chi non si arrende, è una sfida titanica. Far capire che chi taglia il traguardo dopo sei ore, magari zoppicando, merita più ammirazione di chi vola leggero? Questa sì, sarebbe mission impossible.

Molti chiedono anche: «Ma quanti chilometri hai corso?».
Io rispondo sempre: «Chiedere a un maratoneta quanto ha corso è come chiedere a un centometrista quanto siano cento metri».
Vabbè, sciogliamo almeno questo dubbio: una maratona è lunga 42,195 chilometri. Se volete sapere il perché, cercate la storia di un certo Fidippide.

A chi mi chiede “chi te lo fa fare?”, però, voglio provare a rispondere. E lo farò random, seguendo il mio flusso di cuore e coscienza e quello di tanti miei fratelli e sorelle di corsa.

Me lo fa fare la voglia di vivere, prendendo ogni giorno la vita il più possibile a morsi.

Me lo fa fare la riconoscenza per essere sano e vivo: la stessa per cui mi commuovo e piango ad ogni partenza, non solo all’arrivo. Perché già il fatto di esserci e poter partire è privilegio.

Me lo fa fare la passione per le sfumature dell’esistenza, col proposito di mutarle in sapere con sapore.

Me lo fa fare il desiderio di condividere con l’Altro, chiunque egli sia, mantenendomi aperto ad una crescita continua.

Me lo fa fare la stessa forza che mi ha fatto inginocchiare davanti a una giovane maratoneta con due protesi al posto delle gambe; “correva” con le stampelle, eravamo già al trentesimo chilometro e avrebbe completato l’intero percorso. Le ho detto: «Mi metto in ginocchio in tuo onore». Di nuovo, mi emoziono e piango al solo ricordo.

A New York, me lo hanno fatto fare anche le centinaia di migliaia di persone che ci hanno incitato a squarciagola lungo tutto il percorso: da Staten Island, attraversando Brooklyn, Queens e il Bronx, fino all’arrivo in Central Park, a Manhattan.
Perché è vero, si corre da soli, ci si affida al proprio corpo e alla propria mente, ma sapere di poter contare su qualcuno che ci muove dentro, ci sostiene e ci carica, è importante.

E davvero, a New York, ogni metro è stata una incredibile festa: bambini e adulti che ci battevano il cinque, che ci offrivano fazzoletti per asciugare il sudore, e che ci porgevano frutta, biscotti, bevande.
Tutto gratis, tutto per amore dello sport e della fratellanza.

Sì, perché – come ci ha detto don Luigi Portarulo, durante la messa del maratoneta a Saint Patrick – per un giorno New York è stata una sola famiglia che ha elevato una sinfonia di passi. Ogni passo, un atto di fede nella Vita. Ogni passo, un moto di gratitudine. E don Luigi, da buon maratoneta, l’ha corsa pure lui con noi la maratona dei record.

Chiudo. Alla vigilia della gara, al marathon village di New York ci hanno accolto con un’enorme bacheca, pronta a raccogliere le nostre dediche per la fatica che ci apprestavamo ad affrontare. Ne ho scritte diverse. La prima è stata: “Per chi non può”.

Jesse Owens: «Non importa cosa trovi alla fine di una corsa, l’importante è quello che provi mentre stai correndo. Il miracolo non è essere giunto al traguardo, ma aver avuto il coraggio di partire».

Paula Radcliffe: «La maratona rappresenta l’esistenza: ha punti bassissimi, che devi superare, e momenti d’estasi, che ti sforzi di prolungare. È un’esperienza spirituale attraverso la quale entri più profondamente in contatto con te stessa, trovando le risposte che cercavi».

Simone Tempia:

«”La vita è una maratona, Lloyd”

“Allora la trasformi in una passeggiata, sir”

“Le vittorie son di chi arriva sempre primo”

“Ma, alla fine, le soddisfazioni sono di chi ha fatto più strada, sir”

“Un passo dopo l’altro… Lloyd”

“Godendosi il panorama, sir”».


FontePhotocredits: Paolo e Cosimo Damiano Farina
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

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