“Rientra in te stesso”…

Quando Jean Guitton negli anni Cinquanta andò a trovare Heidegger nel suo rifugio nella foresta non mancò di affermare che l’autore di Essere e Tempo fosse un uomo pensoso che viveva all’aria aperta, vicino agli elementi primordiali dell’essere. Se lui viveva immerso nella natura, ad ammirare i cambiamenti degli alberi e delle loro foglie, a curare i fiori come potrebbe fare un sacrestano, oggi il filosofo dove vive? Esiste un pensiero capace di dire qualcosa di significativo al mondo? Se ne potrebbe dedurre che forse no, non esistono più filosofi. O almeno non esistono più quelli che noi consideriamo filosofi. C’è chi si spinge a indicare un nichilismo pervasivo in cui il nulla, la non consistenza cui sembriamo condannati, abbia forza e operi convincimento in ciascuno di noi. Non abbiamo tempo in effetti, ci accontentiamo di informazioni frammentate, rimanendo sulle punte degli iceberg delle informazioni, senza approfondimenti logici e sommovimenti anche morali.  Espulsi da un sistema ormai rigidamente definito, in cui non puoi permetterti di pensare ma solo di agire convenientemente a una impostazione da fabbrica (come in una catena di montaggio dove nemmeno il respiro è più gratuito ma va contabilizzato) ecco che i filosofi e il loro pensare stanno diventando degli sconosciuti pronti a una ardua impresa. Un po’ come si fosse pronti a scalare montagne impervie con zaini in spalla pieni di armamentari incapaci però poi di leggere la realtà effettiva della dura pietra da incidere con picchetti e martelletti. Accettiamo il mondo come arriva, non riusciamo più a modificarlo quel tanto che basta per ricreare la realtà. Se c’è stato un tempo in cui sembrava che al potere ci fosse la volontà, oggi questa volontà non risulta essere più comunitaria ma singola, isolata. Proprio nel periodo in cui la comunicazione dovrebbe essere più efficace e celere, valida e profonda. Ma proprio mentre ci costruiamo storcimenti di naso, vergogne dovute a bambini che muoiono di fame e risentimenti immediati per quanto potremmo fare e non facciamo realmente, ecco che siamo sperduti. Soli in paradisi che assomigliano più alle distese di foreste siberiane che a prati in fiore.  Sparsi come foglie non siamo un viale autunnale tappezzato di colori diversi e la primavera l’attendiamo senza gustarla. Il prezzo da pagare è il nostro anonimato proprio quando ci esprimiamo. Se si inizia a parlare seriamente questo non vale quanto un panzerotto ben costruito. Anzi, pensare scotta più di questo perché nel mangiare pensiero ci si brucia più che non con qualcosa di cotto. Non è che forse abbiamo cotto il sentire con la mente il mondo? Abbiamo bruciato con la razionalizzazione matematica estrema l’emozione, il vedere il reale in maniera alternativa.

Se nelle nostre scuole la filosofia viene ridotta alla sola trasmissione della conoscenza del paragrafetto e alla domandina su dove e quando sia nato quell’autore, non potremmo nemmeno dissentire dallo spostamento di interesse che i ragazzi hanno verso questa via impervia che è il pensiero. A che serve pensare? Mandare a mente complicate nozioni, frasi famose che ti costringono a un lavorio intellettuale quando l’urgenza della pancia vuota, di un lavoro che manca bussano alla porta della riflessione con il loro carico ansiogeno? Se penso agli studi universitari avevo colleghi che erano entusiasti di leggere proprio Heidegger o un Sartre che con termini arzigogolati (dovuti anche a traduzioni intricatissime e infelici) sembravano descrivere scenari straordinari. Ma poi la mia sensazione è sempre stata quella di leggere pagine fitte, complesse per poi farti rimanere vuoto, assente. Non ho mai compreso come noi possiamo esaltare tanto pensatori che ti lascino più vuoti che risposte, che descrivano più minacce all’esistenza proprio mentre descrivono l’essere. A volte è vero che è un verso di poesia a rispondere alle domande più di manuali e tomi infiniti e allora spingersi verso sentieri inesplorati quali quelli della poesia ti ricongiungono con il significato vero del pensiero. Perché la poesia? Scrive in versi Raissa Maritain che essa c’è per “rendere memorabile un messaggio adorabile che passa come la vita. Vorrei che venisse il lampo che raccoglie le parole per lanciarle verso il cielo[1]. La poesia giunge a trascinarti, a raccontare l’intimità che non viviamo più, l’impenetrabile che abbiamo dentro, i sentimenti, le paure profonde, le speranze. Lo slancio, vitale direi, non può perdersi. Il messaggio adorabile, la bellezza non possono non essere più vissuti nell’attimo indicizzato dai motori di ricerca informatici o da un post accattivante su uno dei social. Si cattura l’idea, l’emozione si presenta così come essa si presenta, senza troppi fronzoli, come dialogo intimo fra il tuo essere lì in quel momento e quel qualcosa che ti spinge a scoprirti, a viverti davvero. La poesia, come la filosofia, non ha però più patria, è esule, schiacciata in citazioni momentanee ma che passano senza entrare nella vita. Sembra quasi che un verso annoi. Pure l’Infinito di Leopardi delude se si vede la siepe come una convinzione determinata e che ti blocca. Pensiamoci: Non è forse vero che anche il dolore diviene memorabile, fra tutti i fatti di cronaca a cui assistiamo? Ci rendiamo conto che manca il percorrere il tratturo, come quello pugliese, che educa lo sguardo?

Ogni volta che si pensa si diviene pellegrini, anelanti al cielo, verso santuari che ti promettono la verità. Il problema è leggere le indicazioni che ci guidano. Quante sono davvero rilevanti? Alcuni bivi ti fanno rifuggire da ciò che siamo. Ed è strano. Il nostro è tempo senza misteri da scoprire, salvo poi slanciarsi verso un metafisico effimero, affascinante ma anche contraddittorio. Se oggi si fa tanto riferimento alla vita extraterrestre come capace di venire a salvarci, a parlarci questo non è forse un sintomo di come vorremmo che qualcuno o qualcosa ci guidasse senza fatica al vero? Anche i complottismi in fondo non sono che un cammino verso una ricerca di verità inesausta, che però si abbevera di nulla. Crediamo che tutto sia perennemente guidato da altri, senza chiederci cosa guidiamo davvero noi? Se le autostrade del pensiero si aprono solamente allo scontato, non possiamo costruire nulla, né custodire novità dentro da poter offrire. Il complotto è allora la ricetta migliore per deresponsabilizzarci, per lasciare ad altri la colpa che è solo nostra di non incidere e di non voler pure incedere in passi diversi, su strade ancora non percorse. Non vogliamo cercare più la verità e per questo ne vogliamo un’altra, a basso prezzo e condivisibile come un bene da discount. Quante volte la Verità non vogliamo vederla? Nel nostro andirivieni quotidiano fra diverse faccende, l’uomo perde di vista proprio questa ricerca che diviene un inutile orpello. Tutto è già stato scritto, tutto è già stato reso noto, tutto è calendarizzato perfino quello che stai per pensare. Nessuna novità, solo la dittatura del chiudere le porte al ragionamento. Si ha paura forse di pensare oggi perché si ha paura delle risposte? Io penso di sì. Abbiamo affrontato cammini impervi, difficili, strade assurde che la storia ci ha proposto e ora abbiamo paura della risposta che sarebbe quella di identificare cosa sia questa verità di cui tanto i filosofi antichi parlano? Se la poesia è slancio verso il cielo, la filosofia è anche slancio dentro sé. Puoi forse capire il cielo se non scopri che esso esiste al di sopra di te e anche dentro di te un desiderio inesausto di scoprirlo e ammirarlo? Plotino, come riportato nelle sue Enneadi afferma che forse il sentiero più intimo è quello giusto, complicato da vivere eppure immerso di senso. Egli affermava:

Rientra in te stesso e guarda: se ancora non ti vedi bello di dentro, fà come lo scultore di una statua che deve venire bella il quale a volte toglie e a volte leviga, a volte liscia e a volte raffina, fin quando sulla statua non affiori un bel volto. Dunque, comportati anche tu come lui, togliendo il superfluo, raddrizza ogni stortura, purificando ciò che è scuro per renderlo lucente, non smettendo mai di ritoccare la tua propria statua, fino a quando non riluce per lo splendore divino della virtù, e non vedi la temperanza saldamente posta su di un piedistallo immacolato. Se sei diventato così e riesci a vederla, e in tutta purezza ti sei congiunto a te stesso, niente più ti impedirà di diventare uno per questa via, perché non avrai più alcuna mescolanza nel tuo intimo, ma sarai ridotto a null’altro che a vera luce [2].

Oggi credo che non emergano più autori capaci di dire qualcosa di veramente significativo. Anche le arti sembrano spente. Se da una parte la ripetitività caratterizza le melodie che si ascoltano, se sembra che le nostre città prima piene di verde sembrino conquistare terreni asfaltandoli, se lo sfinimento dei bombardamenti non ci sconvolge più forse quella luce a cui possiamo mirare è spenta? Oggi che direbbero i grandi filosofi dell’antichità? Sarebbero anche loro compressi come i files con cui archiviamo frasi, ricordi, foto e video, originali eppure dimenticabili? Gli Heidegger odierni, incamminati in foreste di dati non riescono più a scoprire la bellezza di un tramonto che non sia un cuoricino. Tramonto che poi non vedi davvero ma che anche nel fotografarlo ti appare nello schermo di un iphone. È stranissimo. Non vediamo se non attraverso specchi che ustionano il ragionare, che pervicacemente escludono ciò che sei e che vivi proprio nel momento in cui tu stai esprimendoti. Il teatro dell’assurdo e la ricerca del vero. Siamo quindi pellegrini verso il vero o verso l’effimero?

[1] Raissa Maritain, Il dolore la poesia, in Poesie (Contemplazione tra poesia e mistica), a cura di Giancarlo Galeazzi, traduzione di Anna Bettini, Jaca Book, Milano, 1990, pp.194-195

[2] Plotino, Enneadi, I 6, 9, 7-16; 22.24, Traduzione di Roberto Radice, a cura di Giovanni Reale, Mondadori, Milano 2002, p.79.


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Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.