Le aperture lessicali espresse, aprono colorati panorami di vedute reali, come immaginari, da sottoporre la mente a continue riflessioni sulla vita e i suoi intraprendenti sviluppi, fino a coronare le risultanze apprese, in un appagamento interiore di benessere e di pienezza spirituale. È questo che succede quando una buona lettura arriva a mandare il suo messaggio al lettore attento.

Avevamo lasciato la storia quasi sospesa tra due situazioni contrastanti: l’amore tra due adolescenti, Maurice e Cosette, e l’efferatezza di delinquenti incalliti, del calibro dei Denardier. Col terzo volume si prosegue, leggendo i presupposti che faranno da base alla conclusione del magnifico romanzo di Victor Hugo?

Qualche dubbio sorge però, visto la ricchezza degli introspettivi argomenti, avvenimenti trattati che portano il lettore a guardarsi dentro, appunto. La ricchezza d’immagini storiche descritte invita a prolungarne la loro analisi affinché il relativo commento ne esca più ricco e soddisfacente.

Si parla di gergo criminale, quello che si sussurra dentro i penitenziari, oppure fuori da essi, per i bassifondi delle città come Parigi. Il gergo è una lingua escogitata e istruita per dire una cosa, un fatto esistente riferito ad un determinato oggetto, senza citarne espressamente l’indirizzo giusto, reale. Personaggio o situazione di cui si vuol mantenere una forma di occultamento, chiamandolo con una lingua incomprensibile, una specie di Esperanto internazionale, ma usato solo da malavitosi. In francese è pure chiamato “Argot” oppure “Verlen”, quando alla parola si invertono le sillabe.
Il gergo è una metafora che vuol dire tutto, ma che non dice nulla. È un metodo parlato e accessibile ai pochi e ne fanno uso i delinquenti per nascondere, celare l’illecito a chi non fa parte della cerchia.

Il progresso è galantuomo. Una giusta rivoluzione è quella che apre la strada all’evoluzione di un popolo, una comunità allargata. Essa scaturisce, non dal dittatore, ma dal popolo stesso, stanco delle subite mancanze elementari, come l’essere libero, non essere inserito, considerato democraticamente, nell’ambito sociale ed aver la  propria voce nelle decisioni che lo riguardano, senza se e senza ma…
Tutto questo chiamiamolo pure “Risanamento morale”. Quando un popolo combatte per la propria libertà è da elogiare. Diversamente quando lascia agli altri il compito di liberarsi dagli intrusi, dal dittatore o regnante dispotico che sia, commette l’errore di perdere, non solo la dignità,  ma gran parte di quello che possiede. Lo afferma Manzoni nel suo primo coro dell’Adelchi:-Il forte si mesce col vinto nemico/ col novo signore rimane l’antico/l’un popolo e l’altro sul collo vi sta…
Anche Cesare Pascarella in “Storia nostra”, scrive di Pio IX che per voler mantenerse il dominio del papato a tutti i costi chiedeva man forte a destra e a manca:- Ti piacciono li morì, li francesi, gli inglesi?/ li vuoi fa veni’ qui?/ma va tu da loro!
Dal 1830 al 1848 si erano svegliati gli animi dei tanti a causa gli scontenti subiti dalle ingiustizie perpetrate dall’elite che gestiva il potere. Ci fu una sequenza di ribellioni che toccava quasi tutta l’Europa,  fatta eccezione della Svizzera e del Regno Unito. Il detto rimasto “Succede il quarantotto” è proprio riferito a quel periodo appunto. Si rivelò un fuoco di paglia, per la non riuscita nello scopo di ribaltare la situazione esistente e, d’altra parte, per la perdita di vite umane che non si era messa in conto per la tanto accesa violenza del popolo. Riferendomi ad una spiritosa storiella in cui due cani, uno barese con un osso in bocca e uno leccese che gli chiedeva di dove fosse: questo nel rispondergli, sono di Bari lasciava cadere l’osso che veniva velocemente raccolto e tenuto saldo tra i denti, dal cane leccese. A sua volta, il cane barese fece la stessa domanda al cane leccese che gli rispose  a denti serrati: -Sono leccisi! mantenendo l’osso.
È la medesima situazione di chi detiene il potere che non lo molla più.
La causa di una rivolta è sempre la stessa e arriva dal basso, dal ceto che si sente trascurato, oltraggiato. La scintilla che accende la miccia può derivare da un qualsiasi motivo, come avvenne a Parigi durante un funerale di un influente personaggio del popolo.
In Italia fu l’arroganza di Pio IX a scatenare la rivolta e a perdere il potere temporale detenuto a scapito dei poveri. In Germania fu la volta dei contadini bistrattata a scatenare il subbuglio.

La storia non sempre insegna a non commettere gli stessi errori poiché l’uomo, più che la bestia, si differisce per eccesso di sicurezza. L’animale selvatico, invece, coi suoi stravaganti,  normali comportamenti, sembra sia più razionale di quanto non lo sia l’Omo Sapiens.

Maurius, dopo lunghi appostamenti di approccio con la sua dolce Cosette, di cui si era elettrizzanamente, invaghito, ne aveva perso le sue tracce  a causa del suo protettore, Jean Valjean: uomo perennemente in fuga, incalzato com’era dall’ostinato segugio Javert e non solo…
L’aveva ritrovata attraverso una delle figlie dei Denardier, Eponine che l’aveva seguita per altro scopo sussidiario e di suo interesse. L’amore è chiuso in un dilemma universale: o perde o salva.
La canaglia, che già conosciamo, non demorde e aspetta il tempo giusto per aggredire le persone per bene. In questo romanzo è preso di mira, anche da parte di quella, così chiamata giustizia, ossessiva di trasgressioni più che di revisioni per i ravveduti, il personaggio principale,  Jean Valjean. Non gli si dà pace per nulla, tanto che è continuamente in fuga con la sua Cosette, salvata dalle fameliche grinfie dei Denardier.

Il Fato, quando incalza malamente, riesce a sopprimere fino all’ultima feluca di speranza. I momenti gioiosi vengono distorti al pari di spirali sempre più complesse, dove le spire vanno a ritroso in un accanimento verso il basso, verso l’irreparabile, l’inferno.
L’idillio tra Cosette e Maurice era sospeso tra il sogno e la realtà e sarebbe bastato un leggero fiato di vento a dar loro una spinta verso il basso oppure per farli volare nei cieli limpidi dell’amore: quello puro, pieno di coinvolgente e disincantata passione. È in questi frangenti che s’incontrano sentimenti contrastanti quali il ravvedimento e l’orgoglio.
Cosette si era confidata con Maurice sul conto di Jean Valjean che voleva traslocare da Parigi per recarsi in Inghilterra. La notizia Era stata come l’ennesimo macigno sulla testa del ragazzo, radiando dal suo stato d’animo l’orgoglio che l’aveva spinto lontano da suo nonno materno.
Ora, impossibilitato finanziariamente, aveva ammorbidito il suo rancore verso l’avo ed era ricomparso per chiedergli grazia di sposare la sua amata Cosette. L’incontro tra i due non era stato proficuo per entrambi in quanto l’uno dimesso e l’altro, il nonno Gillenormand, sempre sulle sue stupide, farraginose convinzioni, aveva mascherato, con il suo falso orgoglio, l’affetto che, sottopelle, nutriva per suo nipote. Al ragazzo gli aveva consigliato, in modo lascivo, cinico di non sposare la ragazza ma di renderla sua amante. Il vecchio Gillenormand non aveva fatto altro  che ravvivare nel nipote l’antipatia e l’orgoglio ammonito, riveduto, ammansito e che aveva mantenuto, nutrito per ben quattro anni verso suo nonno, dal giorno che aveva abbandonato la sua dimora.

La redenzione di un popolo non è intesa come rivalsa verso chi l’opprime e ne ignora, o calpesta, i suoi diritti elementari: quali la libertà di pensiero e di non essere considerato persona umana calpestandone la propria dignità.

L’insurrezione è un vulcano e che, come tale, diventa motivo di ribellione e raggiunge lo scopo.
La sommossa, invece, è un fuoco di paglia che si spegne con gli animi tintinnanti e non decisi a raggiungere i risultati, flebilmente voluti.

“L’insurrezione ha diritto mentre la sommossa ha torto, pur se entrambi
scaturiscono dalla collera”.
(Victor Hugo)

“Se volete rendere conto di cosa sia Rivoluzione chiamatela Progresso è se volete capire cosa sia progresso chiamatelo Domani” (Victor Hugo)

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Leggi la parte prima e la parte seconda dei “Miserabili” recensiti da Salvatore Memeo


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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.

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