
«Sometimes I wish that life was never ending. But all good things, they say, never last»
(«A volte desidero che la vita non abbia mai fine. Ma dicono che le cose belle non durano mai a lungo»
(Prince da Sometimes it snows in April)
***
«“No more Hiroshima” gridiamolo forte più che possiamo così che sovrasti la tensione internazionale che governa il mondo odierno perché questo grido non deve restare confinato, modesto e solitario entro gli argini del fiume Ota, dalle parti del cenotafio della pace»
(Kenzaburo Oe da Note su Hiroshima, 1965)
Era una giornata cupa, grigia. E pungente, come sanno essere le giornate invernali innevate e ventose.
Un lungo brivido le corse lungo la schiena e il respiro le si fermò per un attimo, come il cuore che ebbe un’extrasistole.
Un senso d’ansia la pervadeva mentre stava percorrendo a piedi un lungo viale punteggiato di marrone da una sequela di scheletri di tiglio.
Percorreva sempre quel viale. Ogni giorno.
Con la bella stagione cercava l’ombra proprio sotto quegli alberi, frondosi e maestosi, che profumavano nell’aria.
Ma era inverno. Un inverno come doveva essere. Umido, tagliente.
In giro non si vedeva un’anima. Anche i negozi erano chiusi. E le scuole.
Di solito, in quel momento dell’inverno, a quell’ora, frotte di ragazzi schiamazzavano per strada, appena usciti da scuola. Automobili parcheggiate ovunque, ad aspettare i figli. Vigili indaffarati a far rispettare il traffico.
E invece c’era il deserto.
Sembrava una congiura del silenzio.
Si chiese perché.
A lei piaceva camminare per strada senza meta, farsi accarezzare, ma anche sferzare, dal vento.
E se c’era il sole, amava goderne il tepore sulla pelle.
Ma oggi era tutto così strano, come quando in televisione davano una partita della nazionale di calcio. Ma non c’erano tornei che si giocassero quel giorno.
Poi, un’idea baluginante, un ricordo che aveva rimosso.
La gente aveva paura.
Come in una profezia autoavverantesi, a forza di evocarla, la guerra era diventata realtà.
Più di un personaggio politico, più o meno importante, aveva sostenuto che sarebbe scoppiata di lì a poco. Che non bisognava temerla, ma cominciare ad abituarcisi. Bastava avere una bottiglia d’acqua, un coltellino svizzero ed il kit per piccole medicazioni. E per tre giorni si poteva resistere. E sopravvivere. Per tre giorni.
E da quando qualcuno aveva gagliardamente rivendicato il diritto di prendere l’iniziativa e fare il primo passo, e la controparte aveva replicato che non aveva interesse a fare scoppiare un conflitto, ma di non sottrarsi di fronte all’eventualità, se costretta, c’era stata una corsa, ancor più accelerata, al riarmo.
A lei era sembrato come di un’idiota che di fronte ad un energumeno armato di pistola rispondesse con minacce, brandendo un piccolo coltello da cucina.
Fintantoché, poi, appunto, la guerra era scoppiata davvero.
E le persone, fino a quel momento quasi ignare degli eventi, avevano cominciato ad avere paura, a trasportare cose, vettovaglie, abiti nei garage, nei bassi, a fuggire in campagna. Ovunque si illudessero di essere più sicuri.
C’era stato, qualche giorno prima, un viavai di gente, un traffico intenso di automobili, una ricerca spasmodica di cibo e acqua tanto da far esaurire le scorte.
I supermercati avevano chiuso non avendo più nulla da vendere. Come le panetterie e ogni altro piccolo esercizio commerciale. I bambini erano stati ritirati da scuola e gli insegnanti erano rimasti in cattedra da soli ad aspettare il suono della campana.
Anche le chiese erano state chiuse. Come ai tempi del covid. Solo che erano rimaste anche mute. Le campane non scandivano più le ore.
Lei, invece, aveva scientemente deciso di non fare nulla. Di rimanere a casa sua, da sola, di coltivare i suoi soliti hobby, senza fretta, come se quei giorni fossero giorni normali, ordinari, la solita confortante routine.
Perché scappare quando l’arrivo di una bomba avrebbe devastato tutto?
Qualunque rifugio le sembrava ridicolo. Qualunque prospettiva peggiore della fine.
E allora, perché tanta fretta?
Mentre camminava, un’ultima foglia, rinsecchita e grigiastra, si staccò dall’albero che le si stagliava, in quel momento, di fianco.
“La natura continuerà a rigenerarsi” pensò. “Il Pianeta ad esistere, anche senza di noi. E forse per Lui sarà un bene”…
In distanza, prima lieve, poi, man mano, sempre più intenso, un suono, forse una sirena che annunciava un bombardamento, pensò. E le vennero i brividi …
Cominciò a correre. Un istinto. L’affanno, non aveva più l’età …
…
Si svegliò di soprassalto. Era il suo telefono che stava squillando. Numero sconosciuto. Spamming. Non rispose.
“Ma che diamine di sogno. Che cavoli …”.
Il cuore le batteva forte. Ma era anche sollevata. Era solo stato un incubo.
“Il sonno di pomeriggio non è cosa buona. Almeno per me”.
Si alzò, decisa a prepararsi un caffè.
“Per fortuna, la guerra non c’è ancora”.
Almeno per questa volta, era stato un falso allarme.
























