Finalmente mi ritrovo con un libro  in mano! Ero rimasto digiuno, anzi assetato di storie mai lette e che, nel leggerle, ti fanno capire quanto costa viverle e quante sensazioni scaturiscono in chi le rivive attraverso la lettura di esperienze fatte realmente dallo scrittore. Sì, da chi le ha scritte  giacché non mancano mai accenni o riferimenti personali del proprio vissuto quando si scrive un romanzo, una storia.
Ebbene  ho tra le mani un cofanetto con tre libri di Victor Hugo e precisamente, “I miserabili” che, del primo volume ho già letto cento pagine.
Dalle prime pagine, dopo aver letto la biografia dello scrittore,  si capisce subito quanto egli parli di sé e si rappresenti attraverso il vescovo di Digne, Bienvenu.

Si parla di miseria e di miserabili appunto  tanto da lasciare il lettore in un limbo sospeso tra due eccessi raccapriccianti: la fame e gli illeciti commessi, per un boccone che la quieti. Ma non sempre le tragedie si fermano sul culmine dell’afferratezza da definirne i suoi limiti, ma vanno spesso oltre l’indefinito da guadagnarsi la fama d’ingiustizia. Non si tratta di giustizia Divina ma quella dell’uomo stesso che la rappresenta e che spesso lo fa noncurante del potere che ha tra le mani a scapito di chi egli penalizza. Spesse volte condanna di una pena che, rispetto al “delitto commesso, manda fuori uso la bilancia che rappresenta l’equità.
Va da sé la legge fatta dall’uomo sul suo simile non rispettoso di tali norme e regolamenti ufficiali. Una comunità, intesa come famiglia allargata,  ha bisogno di darsi delle regole per vivere in armonia. Solo che, a volte,  non si tiene conto del motivo e la perplessità della gente a sentenze fuorilegge e irrispettose del giusto, dell’equo, del buon senso.
Se la persona che giudica lo fa arbitrariamente con un fischietto stonato, manomesso, fuoriuso, rischia la nomea di soverchiatore. In quei casi  si merita solo del biasimo, ma non solo: si accolla pure una colpa difficilmente cancellabile e che si riporterà,  per sempre, come una zavorra sulla propria coscienza.

L’uomo non è perfetto come qualcuno potrebbe pensare o, ancora peggio, credere. La carenza di perfezione si nota attraverso l’inconciliabilta’ che l’uomo mantiene con se stesso nel credersi perfetto ignorando gli errori che commette: le azzardate sortite’ le cadute e il farsi male continuamente.
Un ladro impertinente, scaltro, disinvolto che fa del furto un suo lavoro, è da considerarsi una falsa pedina sullo scacchiere di una società, quindi va istruito, coi dovuti, razionali mezzi e non in modo, brutale inumano a non delinguere. Ma punendolo eccessivamente, rispetto al delitto perpetrato, v’è il rischio che gli si dia una “ragione” per farlo amareggiare di più, piuttosto che rinsavirlo. È il caso del galeotto Jean Valjean, nei “Miserabili” di Victor Hugo che, uscito da galera dopo diciannove anni di pena solo per aver tentato di rubare una pagnotta di pane per sfamare i sette bambini di sua sorella. Era stato condannato a cinque anni per il tentato furto, mentre il restante degli anni li aveva accumulati nei vari tentativi di fuga dal carcere di Tolone.

Se Dio c’è…? Certo! Lo si vede anche se si è ciechi. Lo si nota attraverso l’armonia del creato, i contatti con i propri cari, il suono del tempo col suo ritmo incessante, l’effluvio che emanano le piante, il pianto di un bambino appena nato, il riso di un fanciullo allegro che vive la sua primavera: Dio c’è, eccome! Bisogna cercarlo e adorarlo in ogni momento della nostra vita.
Trilussa scrive in una sua poesia “Er  ceco”:-Er ceco camminava accosto
ar muro/pe’ nun pija de petto le persone/cercanno co’ la punta der bastone/ch’er passo fosse libbero e sicuro…continua dicendo che il cieco, nel svoltare un angolo di strada, dove c’era una nicchia con una reliquia, si fermava per “Pregare  Dio, senza manco averlo visto”. L’aveva certamente ascoltato attraverso l’opera grandiosa quale è la “Creazione” rendendosi conto e certo,
della Sua esistenza.
La libertà di credere o non credere è strettamente personale. Non è lecito denigrare chi fa riferimento a un suo Ente divino e lo creda con sincera passione e vero amore: l’importante è avere una fede in cui ci si crede fermamente e senza tentennamenti o dubbi inutili e dannosi.
Essere coscienti di chi siamo e il perché del nostro nascere e morire: un passaggio solamente oppure un assaggio di vita? Una breve esperienza sotto l’occhio attento e misericordioso del Padre? Mistero.
La non credenza, condensa ancor di più il mistero, già  di per sé impenetrabile. È una sequenza di rebus indecifrabili tanto da lasciare gli studiosi in una fase statica e senza la possibilità di cavarvi soluzioni affidabili e certe.
Si sbatte contro un muro resistente quanto invisibile; di prosciugare gli ocenei con un bicchiere scheggiato ed essere privi di recipienti che ne contenga il travaso; avere la sfacciataggine di chiedere l’impossibile ad uno che, in nessun modo, abbia la possibilità di soddisfare la richiesta.
Sua eccellenza Bienvenu, in un convivio, si trova a parlare con un Pari, gnostico in fatto di religione e che si crede di essere in perfetta sintonia coi suoi “pari”, quelli che la pensano alla sua stessa maniera.
L’argomento è dibattuto con spavalderia dal Pari e con essenziale, intelligente, fervente risposta dal prelato, tanto rilassato quanto inconcruente e spocchioso l’altro.
La distinzione tra due pensieri contrapposti rimane evidente. Non ci possono stare due verità assolute e prive di elementari documenti che ne comprovino la loro veridicità. Se ognuno mantiene le proprie opinioni e fa a meno di ascoltare i suoi interlocutori, si rimane sospesi tra le creste di due montagne col rischio che qualche crostone ceda e seppellisca senza bara, la verità.
L’intransigente diventa, inutilmente, un sasso messo a macerare nell’acqua.
Il primo tomo di questo romanzo mi ha detto quanta pazienza e umiltà occorre per vivere e quanto amore e fede per perdonare chi sbaglia; nessuno è perfetto come, a volte, si crede padroneggiando su una proprietà che non è la sua, ma di Dio.


FontePhotocredits: Barbara Corazza, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons
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Salvatore Memeo è nato a San Ferdinando di Puglia nel 1938. Si è diplomato in ragioneria, ma non ha mai praticato la professione. Ha scritto articoli di attualità su diversi giornali, sia in Italia che in Germania. Come poeta ha scritto e pubblicato tre libri con Levante Editori: La Bolgia, Il vento e la spiga, L’epilogo. A due mani, con un sacerdote di Bisceglie, don Francesco Dell’Orco, ha scritto due volumi: 366 Giorni con il Venerabile don Pasquale Uva (ed. Rotas) e Per conoscere Gesù e crescere nel discepolato (ed. La Nuova Mezzina). Su questi due ultimi libri ha curato solo la parte della poesia. Come scrittore ha pronto per la stampa diversi scritti tra i quali, due libri di novelle: Con gli occhi del senno e Non sperando il meglio… È stato Chef e Ristoratore in diversi Stati europei. Attualmente è in pensione e vive a San Ferdinando di Puglia.

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