È più accettato un gatto sul sofà, o un cane sul divano di casa, che Zoltàn sulla panchina di corso Garibaldi a Terlizzi. Un senza fissa dimora provoca la “quiete pubblica” e interpella la coscienza: individuale e collettiva.
Non dà fastidio a nessuno, né chiede nulla. È inoffensivo. Ma ha ugualmente diviso la città: in parte ospitale, in parte a lui preclusa.
Una presenza discreta, finanche rispettosa. Ascolta con gentilezza chi gli si rivolge con garbo. Ogni tanto brontola con se stesso, ruminando un vissuto che non intende partecipare. Fa il baciamano alle signore che gli si porgono con distinzione. Al mattino accetta una tazza di latte caldo dal dirimpettaio, e una pizza fumante la sera, dal proprietario dell’esercizio commerciale attiguo alla sua dimora, piccola e vasta al tempo stesso. In un locale pubblico non entra neppure a viva forza. In un’abitazione non mette piede neppure a invitarlo con insistenza. Preferisce respirare il profumo dei tigli, le cui foglie gli fanno da tetto. Di notte sbircia le stelle: il firmamento lo conosce a memoria.
Zoltàn è un senza fissa dimora, un homeless, un clochard. Vive all’addiaccio. Forse per povertà, ormai per abitudine. Nel mondo ce ne sono tanti. Nella vicina Molfetta, grazie ad alcuni di loro, don Ambrogio Grittani diede inizio a un’Opera meravigliosa. Ora è in corsa per la santità.
Zoltàn è una provocazione. Fino al 2014 ha vissuto a Napoli con la madre Yeni, sulla pista ciclabile di viale Kennedy, a due passi dalla Mostra d’Oltremare, il quartiere fieristico. È straniero, e come tale, secondo la mentalità corrente, dovrebbe abitare in una casa malsana e costosa, e lavorare a nero, o chiedere ospitalità da “clandestino” in una struttura “protetta”. Circostanza quasi impossibile da verificarsi. Ma se si comportasse così, starebbe bene a tutti! Invece occupa una panchina pubblica in zona quasi centrale, cacciato da un’altra di via Bovio e da un’altra ancora su corso Garibaldi, a cui è stato appiccato il fuoco. Indesiderato, ha già “sloggiato” due volte in meno di un anno di permanenza.
La panchina attuale gli fa da amaca, talvolta da divano, da credenza e da desco per consumare un pasto, da supporto per ogni mercanzia, da armadio a vista… Il suo appartamento prediletto è di tre metri quadri. Per corridoio e affaccio, la strada.
Zoltàn vuol dire “signore”. È un nome abbastanza comune in Ungheria, la terra da cui proviene. Pare anzi derivi dal turco sultan, che propriamente significa “sovrano”. Signore o sovrano che sia, nel suo spicchio di mondo, grande quanto una panchina e dintorni, Zoltàn ci sta bene. Non chiede di meglio. Non ha particolari esigenze, rifiuta il superfluo, non ha lo smartphone, non usa i social, che però si occupano di lui perché non ha famiglia e sembra la reincarnazione di uno scomparso (Chi l’ha visto?) oppure un troglodita.
Inizialmente si pensava fosse Martin Bohdal, il giovane rampollo viennese che ha fatto perdere le tracce da oltre quindici anni. Come lui, ha una cicatrice al vertice del setto nasale, e forse la stessa età, benché la barba folta la renda indecifrabile.
Fino a che si credeva fosse Martin, è stato meglio. Era più rispettato. La sua precarietà sembrava “una scelta di vita”. Un bel gruzzolo di denaro si supponeva l’avesse. Che qualcosa potesse elargire, in prospettiva. Ora che invece è Zoltàn, a chi può interessare? È fastidioso… perditempo, scansafatiche, un autentico fannullone, anzi uno scroccone buono a nulla… e chi più ne ha, più ne metta. Qualcuno, per sbarazzarsi di lui, suggerisce (o minaccia?) il trattamento sanitario obbligatorio. In altri tempi sarebbe stato internato nel manicomio di Bisceglie, che paradossalmente veniva considerato un’istituzione modello quand’era pieno di matti, mentre è diventato un vero manicomio senza.
Signore o sovrano, Zoltàn è un “matto da slegare”, segno di contraddizione in una società che normalmente va avanti (o indietreggia?) per processi di omologazione, e non sa relazionarsi con il diverso. La diversità, appena la si legge su un volto concreto, amplifica la distanza, l’esclusione, l’indifferenza, il cinismo.
Zoltàn reclama di essere riconosciuto semplicemente come uomo. Ci riporta alla radice dell’eguaglianza fra esseri viventi in quanto “umani”. Eppure è più accettato un gatto sul sofà, o un cane sul divano di casa, che Zoltàn sulla panchina di corso Garibaldi a Terlizzi.
Non è neppure vero che l’abbia fatta sua, nel senso che chi vuole, può anche accomodarsi. Al suo fianco.