L’intervista della settimana ha per protagonista la dott.ssa Patrizia Lomuscio, laureata in Psicologia Clinica dello Sviluppo e delle Relazioni e Consulente in Criminologia, Psicologia Investigativa e Psicopedagogia Forense, nonché socia fondatrice e presidentessa del Centro Antiviolenza “RiscoprirSi”.
Ogni passione discende da una forte motivazione personale. Come nasce la sua “militanza” a favore delle donne vittima di violenza?
Sono nata e vivo in un Paese affetto da una patologia dura da sconfiggere, ovvero il sessismo, quella subcultura che fa credere a chi ne è affetto che appartenere a un sesso è più importante che essere del sesso opposto. Poiché, storicamente, si registra uno stato di sottomissione della donna rispetto all’uomo, il sessismo si configura come maschilismo. Quella in cui vivo è una nazione ancora intrappolata negli stereotipi di genere. Essi sono molto diffusi al Sud, negli anziani e nei ceti sociali meno istruiti e sono maggiormente cari agli uomini: secondo uno studio dell’ISTAT condotto nel 2013 (“Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere”) il 60,3% è convinto che una madre lavoratrice non possa stabilire un buon rapporto con i figli come una madre che non lavora. E, in generale, quattro uomini su dieci stimano che non esista alcuna discriminazione di genere nei confronti delle donne. Sorprendentemente sono anche le donne a nutrire gli stereotipi su se stesse oppure a negarli: il 50,6% delle italiane pensa che le donne in Italia non patiscano alcuna discriminazione. Gli svantaggi riconosciuti sono legati al lavoro: le donne sono maggiormente svantaggiate nel trovare una professione adeguata al titolo di studio, nel guadagnare quanto i colleghi maschi, nel fare carriera e conservare il posto di lavoro. Ecco perché moltissime donne (il 44,1% contro il 19,9% degli uomini) ammettono di avere fatto rinunce in ambito lavorativo perché hanno dovuto occuparsi della famiglia e dei figli. Nonostante la condizione delle donne nel Sud sia peggiore dal punto di vista lavorativo e sociale, la percezione degli stereotipi e delle discriminazioni subite è molto meno evidente, segno che la presa di coscienza degli stereotipi è ancora lenta nelle regioni meridionali.
C’è un legame tra stereotipi sessisti e femminicidi?
Il lavoro dei Centri Antiviolenza si colloca proprio in questo spazio: il femminicidio è l’omicidio della donna “in quanto donna”, come sostiene la criminologa statunitense Diana Russell. La loro colpa è stata quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione (la donna obbediente, brava madre e moglie, la seduttrice), di essersi prese la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, di essersi sottratte al potere e al controllo del proprio padre, partner, compagno. A causa della loro autodeterminazione, sono state punite con la morte. Non stiamo parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, stiamo parlando anche delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto, le donne uccise dall’AIDS, contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività, delle prostitute contagiate di AIDS o ammazzate dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche. E se torniamo indietro nel tempo, stiamo parlando anche di tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo.
Quali le categorie di donne più colpite dalla violenza?
Come mostrano le statistiche, quello della violenza è un fenomeno trasversale e globale. Il vento della violenza soffia in tutte le direzioni: riguarda tutti i ceti sociali e tocca nello stesso modo le donne più acculturate e abbienti, così come quelle più deboli e con bassi livelli di scolarizzazione.
Lea Garofalo fu brutalmente assassinata per aver avuto il coraggio di opporsi ad una violenza definibile “tribale”. Le va di raccontarci storie di “donne-coraggio” che l’hanno colpita particolarmente?
Aveva solo 13 anni Lea Garofalo quando ha fatto la fuitina con il ragazzo di cui s’era innamorata. Voleva allontanarsi dalla Calabria per vivere una nuova vita a Milano e invece si è ritrovata nell’ambiente della ‘ndrangheta. Ebbe una figlia a 17 anni e mezzo per la quale ha desiderato un avvenire fatto di scelte libere e non di cieca obbedienza e morte. La storia di Lea Garofalo è costellata dalla violenza: suo padre fu ammazzato quando lei aveva pochi mesi di vita; suo fratello muoveva i fili dello spaccio a Milano e fu assassinato nel 2005. Lea Garofalo ha vissuto nella solitudine e nella paura, le stesse di molte altre donne che hanno osato ribellarsi alle logiche malavitose. Ne cito solo alcune: Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce; le sindache calabresi minacciate come Carolina Girasole, Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta.
Sembra quasi che solo le donne siano in grado di far paura alla mafia…
In effetti. Tempo fa ho letto un interessante articolo della sociologa Renate Siebert: secondo questa studiosa il mafioso non si fida delle donne perché in ogni donna c’è una madre. Le donne fanno paura perché hanno il potere di diventare un potente motore di cambiamento sociale attraverso l’educazione dei figli. Finché avremo donne convinte che il figlio maschio debba essere educato alla forza ed alla vendetta e la femmina al silenzio e all’obbedienza, non faremo passi avanti nella lotta contro la violenza e le mafie. Ci sono invece tante donne che hanno avuto il coraggio di dire no. È a loro che ci ispiriamo quotidianamente nel difficile lavoro del riconoscimento dei diritti umani svolto dai Centri Antiviolenza.
Come combattere la violenza sulle donne?
Con la legge sullo Stalking e quella sul Femminicidio il nostro Paese si è dotato di una normativa efficace per il contrasto alla violenza di genere: a partire dal mese di Gennaio 2016 sarà avviata la sperimentazione del braccialetto elettronico anti stalker, su venticinque coppie che sono state individuate come “a rischio”. Il dispositivo prevede che la coppia sia dotata di un dispositivo di controllo satellitare, identico per la donna e per l’uomo e simile a un piccolo telefono cellulare.
Quali sono, secondo Lei, i miglioramenti ancora da apportare, alla normativa vigente, al fine di assicurare una tutela alle ancora troppe vittime di violenza?
Perché sia efficace, il lavoro di contrasto alla violenza e di tutela delle vittime deve essere sempre accompagnato da interventi di tipo culturale, ovvero di prevenzione primaria. Per prevenzione primaria si intende tutti gli interventi volti a prevenire la violenza prima che si verifichi. Spesso si agisce soprattutto sulla prevenzione secondaria, ossia con le risposte più immediate alla violenza (assistenza ospedaliera, servizi di pronto soccorso) e sulla prevenzione terziaria, vale a dire sull’assistenza a seguito di violenza. Invece la violenza può essere prevenuta. Molti di coloro che convivono con la violenza ritengono che essa sia un aspetto intrinseco della condizione umana ma non è così, le culture violente possono essere cambiate. “I governi, le comunità e gli individui possono fare la differenza”, sosteneva Nelson Mandela. “Il nostro compito è quello di dare ai nostri figli, i cittadini più vulnerabili in qualsiasi società, una vita libera dalla violenza e dalla paura. A questo scopo dobbiamo impegnarci instancabilmente a costruire la pace, la giustizia (…). Dobbiamo occuparci delle radici della violenza”.
Quanto è importante, in virtù della sua esperienza, saper sorridere e diffondere speranza?
Proprio in questo momento storico, particolarmente esposto alla paura, è bene coltivare un atteggiamento positivo e fiducioso nel futuro. Tuttavia è importante che la speranza poggi su solide basi, date dalla denuncia civile, dall’appello alla non violenza, alla giustizia, alla legalità e al perseguimento del bene comune.