Sono gli anni in cui la vita è ogni giorno generosa e sorprendente. Per andare a scuola dovevo scavalcare un muretto, calpestare un po’ di prato non recintato, attraversare pochi metri di asfalto, salire cinque gradini ed eccomi nella 1 A della scuola “P. N. Vaccina”. Ma sono soprattutto gli anni in cui la città coincideva con il luogo della scoperta. La bici. A tutte le ore del giorno si attraversava la città. Come i vincitori di un Tour de France personale, si pedalava orgogliosi per la concessione ottenuta e per la gioia del trofeo tanto agognato: quella piccola libertà di muoversi secondo il proprio gusto, scegliendo la propria strada.

Così incontrai Vito. Per strada. Quando lo vidi per la prima volta eravamo in bici e dal taschino della sua camicia a mezza manica spuntavano delle foglie di un mazzo di sedano. Gli dissi il mio nome. Ne rimase colpito: “Bianca, ma tu cosa studi a scuola: ingleys o franleys?”

Ogni parola che pronunciava aveva un suffisso comune: leys, il suo cognome leggermente modificato. Liso. Lui si chiamava Vito Liso. Ma era Vito Leys. E quasi tutte le strade della città in quel periodo avevano un doppio nome. Sotto il nome vero, col pennarello, Vito aveva scritto il nome ‘giusto’ (es: Via Regina Margherita – Via Regina Margheleys). Addirittura nei pressi dello stadio di Andria, fino a qualche mese fa, era ancora leggibile “Contrada Leys”.

Bisogna dire però che solo una strada meritava la consacrazione, la perfezione, l’onore di chiamarsi solo e soltanto “Viale Leys”. Era infatti il suo quartier generale, un viale (Viale Crispi) all’epoca chiuso al traffico solo per poche ore al giorno, le stesse in cui i giovani di tutta Andria si ritrovavano per passare il tempo.

In queste sere poteva succedere di non incontrare Vito immediatamente magari perché aveva deciso di passare la serata seduto su un lampione ad osservare la folla come se si fosse riunita per adorarlo. Oppure poteva capitare, di mattina, verso l’una, quando il traffico travolgeva “Viale Leys”, che Vito andasse al centro della strada e facesse la vertileys (verticale, sì, la verticale con le mani a terra e i piedi al cielo) davanti a un’auto. Il traffico paralizzato dalle risate, sue, nostre, di chi era al volante a godersi in prima fila lo spettacolo. Ricordo ancora il giorno in cui scelse di salire sul tetto di un furgoncino pieno di suore. Fece la vertileys davanti a loro e poi sopra le loro teste nello sbigottimento delle povere sorelle e l’ilarità di una folla che davvero lo amava e lui amava far divertire.

Vito adorava la musica italiana. Conosceva a memoria tutti i testi. Abbiamo spesso cantato a squarciagola “Il mio canto libero” seduti a un gradino e ci siamo chiesti cosa significasse ‘anelito’ o ‘retaggi’.

Vito spesso spariva. Dopo qualche giorno, trovavo una cartolina nella cassetta della posta, luogo magico in cui si riponevano speranze e si consumavano attese, e mi sorprendevo del fatto che avesse scritto in un linguaggio formale solo il nome, cognome e indirizzo (senza che io glielo avessi mai dato!). Tutto il resto del testo partiva da una singolare registrazione del luogo e dell’ora: “Vicenza, 12:45” / “Vicenleys, 12+45= 57”. Lascio immaginare il seguito.

Vito mi portava ogni giorno in dono una rosa rossa benedetta dal prete della sua chiesa preferita. In occasione del mio compleanno chiese soldi a tutti gli amici, ai passanti, a chiunque, pur di riuscire a prendermi un regalo. Tutt’Andria volle poi sapere cosa mi comprò alla fine: un orsacchiotto bianco appeso a una mongolfiera.

È morto il 28 ottobre di qualche anno fa, forse dieci, forse di più. Non si è mai saputo come né perché. Si diffuse la voce che aveva preso delle dosi massicce di “potenti psicoleys”,  così come lui li chiamava. Non ho mai voluto sapere nulla di più. Un giorno, però, nel cimitero di Andria mi fermo per un sassolino nella scarpa, abbasso la testa e trovo la sua faccia sorridente su una lapide ‘ingiusta’ (è inciso Vito Liso).

L’ultima volta che lo vidi fu dalle finestre della mia classe. Mi chiamava per mostrarmi cosa stava facendo per me: puliva le aiuole degli alberi della mia scuola. Vito non è mai morto. “Bianca, – mi diceva spesso – non puoi farci nulla, Leys è dentro di te”. Vito è esattamente come lui stesso si è definito in una lettera, l’ultima che mi ha scritto: “ATTORE E REGISTA NATO MA NON DIVENTATO”.

Se poi ho amato la strada e il cinema, e se oggi sono qui a tentare scrivere della strada e di quanto sia cinema e vita, è per Leys. Grazie a “U Leys”.

 

 


11 COMMENTI

  1. Complimenti.
    Mi hai fatto tornare indietro nel tempo di oltre 20 anni.
    Bello il tuo ricordo di quel piccolo grande uomo amato da tutti.
    E che con piccoli gesti mai violenti o volgari, riusciva ad attirare l’attenzione dell’intera gioventù andriese, o per lo meno di quella che frequentava il centro.

  2. Ciao Bianca,
    complimenti per il racconto.Hai tratteggiato nel modo più umano una delle tante Persone(la maiuscola è voluta)troppo spesso scambiate e confuse con l’icona o lo stereotipo di”personaggi solo “folkloristici”.

    Volpone

  3. Grazie Bianca per questo stupendo “amarcord”. Anche in Curva Nord gli volevamo un sacco di bene “Vito Leys u d’ veit”. Un abbraccio cara Bianca.

    • Caro Tony, avrei voluto parlare anche della Fidelis. Ma a voi ho dedicato questo scatto allegato all’articolo. “C. Leys”, infatti, è scritta sulla curva dello stadio di Andria. 🙂

  4. Vito per ” quelli di via Cavallotti” era leys U d’veit. BAM! Con questo racconto mi hai sbattuto in faccia anni di ricordi che non trovavo più. Come odori, come fotografie virate, come in un bel racconto. Grazie Bianca.

  5. Cara Bianca mi hai fatto ritornare indietro di 15 anni, quando spesso insieme a te assistevo alle manifestazioni di Vito. Ti lascio immaginare, visto il mio nome, mi diceva: “Ciao, Annaleys, amica di Vito Leys che si mangia le Kinder Deleys”. Troppo forte!

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