A proposito del referendum sul taglio dei parlamentari

Durante la campagna referendaria 2020 si è parlato di rappresentabilità, di pluralismo, di territori. Si è parlato di partitocrazie e di contrasto delle oligarchie. Si è parlato di una forma democratica di Stato pluralista che sia a misura anche delle periferie civiche, nonché a misura anche e soprattutto dei territori economicamente più depressi e con minori opportunità o con opportunità ripartite iniquamente, aprioristicamente.

Evidentemente tutto questo non è servito a coloro che, per libero pensiero o per fame o per disillusione verso i discorsi frutto di studi attenti e sistematici, hanno scelto di proseguire in una idea di tagli di un qualcosa che non riesce a rappresentarli. I territori in cui il si al referendum costituzionale ha stravinto sono i territori – come il Molise o la Calabria – a cui i sostenitori del no facevano riferimento nel sollevare le preoccupazioni sulla rappresentabilità. Che paradosso!

Si è discusso infatti sulla capacità del Parlamento di rappresentare quegli spazi di civiltà italiana già così abbandonati dagli autoreferenziali centralismi decisionali di carattere burocratico ed econometrico, che in quei territori hanno spesso rinunciato ad investire, rendendo gli stagni economici del Paese delle vere e proprie paludi di diseconomato sociale.

Allora la soluzione è stata quella della selvaggia amputazione del Parlamento italiano, con una riduzione irragionevole nel quantum. Il popolo sovrano ha scelto un parlamentarismo amputato, e ci confronteremo tutti con questa realtà strutturale più di nicchia, secondo la volontà popolare, da rispettare sempre, da autentici pluralisti, e da analizzare criticamente. Viva la volontà popolare! Viva la critica delle coscienze!

Il corso della storia maestra di vita sociale ci insegna che nelle sfumature di questi paradossi si celebrano le migliori opportunità, spesso inaspettate. Vorremmo pertanto essere sorpresi positivamente, come cittadini; vorremmo che le preannunciate stagioni riformistiche post-referendarie iniziassero ad avvisarsi in un percorso condiviso di carattere sistematico. Vorremmo programmi retti da criteri di coerenza, adeguatezza, ricerca dell’opportuno contrappeso civile e socioeconomico. Vorremmo una primavera politico-costituzionale prolungata,  illuminata da piani condivisi in cui si pensi anche all’economia del lavoro reale quando si parla di legge elettorale, e in cui ci si prefigga di raggiungere solide soluzioni in tema di lotta alle disparità sociali e di genere quando si parla di tutela e rappresentanza in Parlamento delle autonomie locali più “sperdute” – perché dimenticate – e più spaventate.

Una visione riformistica a singhiozzo e desistematizzante rischia di non garantire la stabilità e la coralità degli investimenti,  e finisce con il privare il Paese di una ossatura identitaria chiara e forte sul piano delle relazioni istituzionali e commerciali con l’estero.

I sostenitori del no referendario costituzionale sono stati definiti come dei romantici combattenti che pur presagendo il proprio schianto continuano a combattere. In realtà, all’interno del fronte del no referendario 2020 i progressisti riformisti al di là di letterari romanticismi erano per una idea di cambiamento socio-istituzionale dal sapore post-illuministico moderato, nell’equilibrio della ragione e delle proporzioni tra cittadini rappresentati e cittadini rappresentanti, all’interno di una realtà dinamica ed eterogenea che richiede maggiori capacità e dosimetrie di rappresentabilità.

Se la direzione “etica” di spending review ha preso il sopravvento, si abbassino gli stipendi dell’universo parlamentare, si abbassi il numero del personale di cui ogni parlamentare dispone, si invitino i lavoratori-rappresentanti della nazione ad intensificare la quantità e la qualità della propria forza-lavoro. Si chieda al nuovo mondo – o comunque al nuovo volto – del Parlamento italiano di superare le inefficienze e i rallentamenti nel sistema del “fare le leggi”, superando il bicameralismo paritario così come lo conosciamo in tanti anni di storia repubblicana, superando l’esercizio abusivo della decretazione d’urgenza da parte dei governi, superando le diseconomie e gli squilibri nell’utilizzo del fondamentale istituto della fiducia tra Parlamento e governo. Si regolamenti il rigoroso utilizzo dello strumento costituzionale della fiducia, affinché questa possa rappresentare davvero un vivido termometro degli indici di coerenza tra l’ordinamento formale e il diritto materiale in movimento secondo le esigenze dei tempi in corso.

Se nessuno di questi punti appena esposti dovesse entrare nelle agende della politica e negli ordini del giorno, nelle sessioni e nelle sedute della legislatura in corso e di quelle a venire, in una progressione pragmatica urgente ma meditata, ci ritroveremo ad essere davvero soli, come cittadini e come esseri umani pensanti in balia di un potere pubblico esecutivo che depotenzia il parlamentarismo sostanziale, e con esso le rappresentanze popolari nella sostanza dei risultati.

Le solitudini senza voce e senza rappresentanza diventano atrio d’astio fra individui e fra diversità, che a lungo andare diverrebbero monadi umane e territoriali incomunicabili, in una guerra fra poveri che non vogliono e che non si meritano ulteriori depauperamenti.

Le minoranze e i territori disagiati, dopo stagioni di assistenzialismo, pretendano anzitutto da se stessi il coraggio di osare nel guardare più in là in un’ottica di investimenti e crescita all’insegna di un libero mercato infrastrutturalizzato in senso tecnologico e securitario, equo ed ecologico per necessità, liberale per opportunità. Da se stesse? Perché dovrebbero trovare il coraggio da se medesime? La retorica pop dominante promette in perenni campagne cibernetico-elettorali a ruota libera, ma poi la retorica tradisce le persone una volta che viene denudata oltre il palco. La retorica sa solo mettere fuoco sulla paglia della miseria, e la miseria deculturalizza, disorienta, scoraggia. Si ritrovi quindi il coraggio, ciascuno partendo dalla bellezza delle proprie diversità e unicità. Solo se si è forti dentro si può pretendere fuori, in questa dura realtà di inconsapevolezze.

Se non saranno avviati dibattiti concreti su riforme reali, concrete ed effettive nella pienezza delle sfide per il progresso di ottimizzazione del Paese, ci ritroveremo nelle solitudini di un sistema che schiaccia le individualità diverse dai cori da stadio elettorale. Ci ritroveremo in un assetto riformato e amputante che ha inciso sulla stessa forma di Stato, ossia nella relazione tra governanti e governati, oltre che sulla forma di governo e quindi nelle relazioni infra-statuali tra le distinte anime istituzionali, con una istituzione parlamentare – stavolta – di fatto depotenziata.

Se restiamo sordi e accasciati nelle notti dei tempi, nelle bolle delle propagande elettorali perenni, tra demagogie neoplebiscitarie di basso profilo e neopartitocrazie pop, quando promuoveremo l’evoluzione?

Voglio nutrire opportune speranze, speranze che siano edificanti, propositive, ma sempre (auto)critiche e in divenire; perché l’alter ego della speranza critica di ciascuno di noi – cittadini! – sarebbe la vittoria di un titanismo populista senza titani, di un monodeismo senza deus ex machina, di un vuoto politico neo-assolutistico che non accetta di essere libertariamente relativizzato.

Navigando incoscientemente verso una subdemocrazia delle solitudini quale futuro avremmo? La partita è aperta, gli strumenti delle libertà civiche e politiche sono sulla scacchiera dove occorre far leva sulla luce per distinguere gli spazi valoriali chiari da quelli oscuri. E quando la luce viene spenta dalla limitazione degli strumenti politici e giuridici delle libertà, il giuoco della partita si fa socioculturalmente, nonviolentemente, cardinalmente lotta. Finché quest’ultima non sarà organizzata dagli intellettuali in mezzo ai nervi scoperti della popolazione, il liberale nutra la propria scomoda post-gobettiana (e non solo) speranza di lotta; per una rivoluzione liberale ancora tutta da scoprire.


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Luigi Trisolino, nato l’11 ottobre 1989 in Puglia, è giurista e giornalista, saggista e poeta, vive a Roma dove lavora a tempo indeterminato come specialista legale della Presidenza del Consiglio dei ministri, all’interno del Dipartimento per le riforme istituzionali. È avvocato, dottore di ricerca in “Discipline giuridiche storico-filosofiche, sovranazionali, internazionali e comparate”, più volte cultore di materie giuridiche e politologiche, è scrittore e ha pubblicato articoli, saggi, monografie, romanzistica, poesie. Ha lavorato presso l’ufficio Affari generali, organizzazione e metodo dell’Avvocatura Generale dello Stato, presso la direzione amministrativa del Comune di Firenze, presso università, licei, studi legali, testate giornalistiche e case editrici. Appassionato di politica, difende le libertà e i diritti fondamentali delle persone, nonché il rispetto dei doveri inderogabili, con un attivismo indipendente e diplomatico, ponendo sempre al centro di ogni battaglia o dossier la cura per gli aspetti socioculturali e produttivi dell’esistere.