«I libri che il mondo chiama immorali sono libri che mostrano al mondo la sua vergogna»

(Oscar Wilde)

Tempo fa ho conosciuto tre persone siciliane: Giulia, Riccardo e Sara. Riccardo e Giulia sono marito e moglie, Sara un’amica.

Lui silente, calmo, riflessivo e ascoltatore, Sara più sanguigna e palesemente siciliana ad ogni minima inflessione vocale, ma Giulia! Giulia sembra fisiologicamente seria ed irremovibile, di un quartiere più periferico che colorisce esponenzialmente il suo accento marcatissimo. Parla un italiano forbito ed evidentemente (molto evidentemente) insulare; non tradisce mai un attimo prima ciò che dirà un attimo dopo. Il punto è che in quelle situazioni goliardiche, quello che verrà nell’istante successivo, sistematicamente diventerà motivo di risata fragorosa: di tutti, eccetto che sua. Lei è così, passa continuamente dal registro della persona seria, a quello della comica: meriterebbe un compenso in danaro per il modo in cui sa farlo.

«Sembri la Mannino!», le dissi un giorno a pranzo, in un favoloso ristorante affacciato sul Lago d’Orta, mentre avevo letteralmente le lacrime agli occhi dal ridere e non riuscivo nemmeno a parlare.

Mi guardò per un momento lungo una vita, occhi nerissimi puntati dritti nei miei, volto imperturbabile:

«Non fisicamente, voglio sperare!».  Che ve lo dico a fare, mi stavo sbellicando.

Una persona spessa, definita, inconfondibile, di quelle che non lasciano spazio al grigio. Bianco o nero: la ami o la odi. Io l’avevo amata alla terza sillaba e, conoscendomi, non è affare quotidiano.

Orbene, aneddoto:

«Ehi don, lontano dagli occhi, lontano dal cuore», disse a quel suo amico prete, lasciato in quella Sicilia che un lavoro non glielo aveva mai offerto, nonostante fosse una professionista con un curriculum di quarantadue pagine, in cui solo le prime cinque erano anagrafiche e per titoli: tutto il resto era elenco di signore pubblicazioni ed esperienze.

«Lontano dagli occhi, Giulia, lo decideste voi altri», disse lui, «vi dovevate adeguare alla mentalità mafiosa di qua sotto, accettare quel poco che c’era e poi vedere cosa veniva».

Me lo stava raccontando, Giulia e così continuò, abbandonando qualsiasi gergo linguistico nazionale.

«Minchia, sulu a sindillu avvambai: “Ma ti stai sintiennu? Tu ca sì parrinu? Picchì, ti facisti mafiusu macari tu, comu chiddi ddi dda ssutta? Ma cchi mi sta cuntannu, parrinu? Chi minchia stai ricennu? O sugnu troppu vastasa, ah?».

Eravamo al telefono e a quell’avvambai vidi davvero Giulia che prendeva fuoco davanti a me! Aveva un’inflessione cruda e tagliente, figlia dell’offesa, della dignità lesa, della vergogna, dello sconcerto di chi certe dinamiche le conosce bene, tanto da abbandonarle, ma dovendone necessariamente restare figlia. E come figlia che riconosce matrigna, parlava.

La sua rabbia era così dolorante e carica da strappare qualsiasi distanza: era improvvisamente lì davanti a me, con quel modo che era solo suo di essere perfettamente circostanziata, mi fece raggelare, era la prima volta che quel suo personalissimo modo di fare non mi faceva ridere: era la prima volta che mi scontravo a muso duro con tutto l’insieme delle porcherie a me, tanto terrona, ben note, ma mai prima di allora così crudamente e visceralmente riportate.

Niente, non c’è niente della Chiesa, quotidianamente intesa, che sia mai stato esemplificativo per la mia vita. Niente, se non la Parola. Ma Lei, scevra da letture umane.

Ogni volta che qualcuno ha cercato di darmela a bere con la scusa che ciò che stava operando  era il volere del Signore, non ha fatto che creare sopruso, sempre e sotto ogni punto di vista.

Il Dio che conosco io non è Dio di soprusi. Gli uomini sì. E più si dicono lettori di quella Parola, più se ne fanno interpreti e padroni, come fosse la loro.

E se penso e riassumo, mai, mai nella vita mi è stata restituita la dose di rispetto minimo che il mio Dio insegna, da coloro da cui me la potevo aspettare e nel modo in cui la potevo pensare. Mai.

Eppure, come diceva la nonna, leggiamo tutti lo stesso Libro.

Da un racconto al telefono mentre lottavo con fornelli e mano ingessata,  la più vera e cruda disquisizione luterana, allargata a tutto quanto sta ben oltre. Inclusi proprio i luterani, che di Martin hanno fatto tutto quanto probabilmente lui non era.

Lo sto immaginando a scrivere le novantacinque tesi di Wittemberg in latino, perché gli accademici le leggessero e scendessero dalle cattedre a discuterne, poi accusato di sommossa popolare. Ancora mi domando come avrebbe potuto insorgere il popolo, dal momento che il latino non lo conosceva? Senza dire che la testimonianza sull’affissione di quelle tesi risale a due anni dopo, scritta da chi in quel momento, a Wittemberg, non era nemmeno presente.

Lasciamo perdere, avrei voluto questi pensieri prendessero le fattezze del peggiore dei miei urli muti, per un mondo sordo.

E, invece, per un mero gioco di contingenze dell’ultimo minuto fatto di omissioni, tagli, voltafaccia, furbizia (o presunta tale), opacità, finzione, gente che si nasconde come fosse appestata, altra che scappa come fosse inseguita, lanciatori di pietre e professionisti nel nascondere la mano e le mani (tutto riassunto in pochissimi atomi e corpi, molto meno che pochi, direi contati su meno della metà delle dita del palmo di una mano), i miei pensieri si trasformano davvero in una straziata richiesta: cosa è stata messa su, di preciso? Un’associazione a delinquere a stampo mafioso per sparare sulla Croce Rossa? E poi perché? Perché imporre un tale prezzo? Qual è, quale sarà mai stato il peso del debito contratto?

È che sono la regina degli incapaci: dove finisce il limpido, io non so più leggere, né comprendere. E chiunque mi metta in una tale condizione, conoscendomi, dovrebbe sapere quale delitto sta operando, perché io letteralmente perdo il lume ogni volta che vengo messa nella condizione di non comprensione.

Non so voi, ma in tutto quanto ho scritto, umanamente parlando, non ho trovato nulla che possa dirsi accettabile e comprensibile.

Nulla che possa salvare queste parole dalla sola definizione che meriteranno, sempre perché i miei cerchi devono chiudersi là dove si sono aperti. Questo giro toccava ad Oscar Wilde e  con lui, le mie parole: immorali.

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FontePhotocredits: pixabay.com
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.