«La moda è fatta per andare fuori moda»
(Coco Chanel)

Sono le 06:44, ho dimenticato di puntare la sveglia… quando ho chiamato mio figlio, che ha scuola anche di sabato, mi ha detto che ieri sera mi sono addormentata addosso a lui mentre cercava di farmi vedere un video sul suo cellulare; pare abbia controllato se fossi vigile e si è accorto che ero crollata.  Questo si chiama inizio di cambio generazionale: sto diventando vintage.

Lui è uscito ed io ho incrociato lo sguardo del nostro cane: spiattellato sul pavimento, il testone poggiato sulle zampe, occhi rivolti verso l’alto a farmi vergognare. Sì, perché necessariamente deve guardare verso l’alto per incrociare il mio sguardo, ma io mi devo piegare, perché nulla è più ingiusto di me in quella posizione di superiorità, quando non ho assolutamente nulla che mi renda superiore a lui. Alla fine, voleva solo andare a fare la pipì e non lo stava nemmeno chiedendo: dovevo saperlo, lui era lì buono buono, in attesa.

Sono andata a vestirmi senza nessuna voglia di farlo: ho scelto di aprire l’armadio dei miei figli. Ho scippato un loro pantalone di tuta e mi è caduto l’occhio su una felpa in particolare: taglia XXXXXXXXXXLLLLLLLLLLL, tre bande grigie di diversa tonalità ed una centrale gialla che fa da sfondo ad uno stemma motociclistico (Motor Cycle Company). Sulla banda grigio chiaro in basso c’è un’aquila stilizzata ad ali spiegate, come sulla manica destra (Detroit, c’è scritto) e sulla banda grigio chiaro in alto troneggia in arancione il marchio: Foxhound.

In pratica non è una felpa, è la pagina di un libro di storia. Trent’anni fa avevo 13 anni e il marchio Foxhound andava per la maggiore, come l’abitudine a vestirsi con settecento taglie in più per coprire qualsiasi traccia di sé… eravamo tredicenni molto diversi da quelli di oggi. Volevo la felpa, Foxhound  con ogni oncia di me e, di contro, mia madre me lo impediva con ogni oncia di sé. Nella sua testa, il fatto che fossi figlia e nipote unica, in una famiglia benestante, non poteva e non doveva implicare la possibilità di default di comprare un pezzo di stoffa che sarebbe costato un rene. Rappresentava un inutile vizio che sarebbe andato contro il concetto che per tutti i 13 anni precedenti aveva cercato di passarmi: dentro casa ero una regina e potevo permettermi di avere anche la luna, fuori no. Fuori ero un numero come tutti gli altri numeri e avrei potuto fare o essere una differenza solo se mi fossi rimboccata le maniche.

Sei solo nata dalla parte giusta del mondo ed in una situazione economica congeniale, ma non è un merito, mi ripeteva allo sfinimento. Ciò che hai devi sapertelo guadagnare e tenere, senza mai sentirti al di sopra di nessuno, poiché al di sopra di nessuno non sei, non finché non ci sarai salita da sola. E anche allora, davanti a Cristo, non esisteranno differenze.

Era un mantra, una litania continua: ero viziata, perché lo ero, ma dovevo essere consapevole che quelli erano vizi e non diritti. Dunque, la felpa Foxhound me la potevo dimenticare. O meglio, avrei potuto dimenticarla se non fosse esistito Peppe, un amico di mia mamma che sembrava essere nato per metterle i bastoni fra le ruote, quando si trattava di me. Ricordo che quando avevo ormai 18 anni ed ero una testa calda come poche altre mi è capitato poi di incontrare, c’era mamma che si lamentava con lui, in mia presenza, sciorinando un elenco onestissimo di tutte le cose che non andavano in me (non una bugia, tutto vero, ammetto). Lo sguardo che Peppe aveva in quel momento, avrebbe dovuto entrare a far parte del patrimonio Unesco: mai espressione fu più lapalissiana. Ma, a scanso di equivoci, la fece accompagnare da un commento secco e serafico: mi ricorda tanto una di mia conoscenza, quando avevamo noi 18 anni. Madre colpita e affondata. Silenzio. Oggi mi fa ridere, all’epoca mi fece imparare cosa significa sentirsi a metà fra il soddisfatto e lo sconfitto.

Ma torniamo alla felpa e a cinque anni prima: insistevo perché non ero capace di smetterla, io la volevo quella benedetta felpa, però insistevo solo dentro casa. Fuori ero muta e non proferii parola nemmeno quel pomeriggio a cui sto pensando. Ad angolo fra Via Andrea da Bari e Via Principe Amedeo c’era un negozio di abbigliamento di cui mi sfugge il nome, esattamente di fronte allo studio di mia madre: quel pomeriggio io ero lì e Peppe passò a citofonare per il gelato. Scendemmo e, non so perché, prima del bar, Peppe decise di entrare in quel negozio e chiedermi se mi piacesse qualcosa: lo sguardo di mamma era quello che io chiamavo “Sguardo Adolfo” (a voi la comprensione dell’appellativo, per carità), solo che io non ero poi così incline a lasciarmi sottomettere e dunque mi guardai intorno, focalizzai lei, la benedetta felpa Foxhound, e la indicai… nel momento stesso in cui lo sto scrivendo, credetemi, mi prenderei a schiaffi e non capisco come sia stato possibile non mi siano volati i denti allora. 350.000 Lire! Trent’anni fa! Peppe non doveva farlo, io non mi dovevo permettere e mia madre aveva ragione. Punto.

Ma anche virgola… perché Peppe mi comprò la felpa, mamma era Adolfo nel bunker e io ero contenta.

Come contenta sono stata oggi, davanti allo specchio: la felpa evidentemente valeva ogni singola lira che costava, dal momento che dopo tutto questo tempo ancora sembra comprata ieri; i miei figli non la indossano, sebbene sia finita nel loro armadio e dunque io me la riprendo molto volentieri. Il punto però è un altro, tornando all’inizio. Quando l’ho indossata, ho scritto ad un mio amico, mandandogli la foto del reperto e chiacchierando mi è venuto il prurito di cercare online. La felpa e tutta un’altra serie di capi Foxhound esistono, il problema è la sezione in cui sono catalogati: abbigliamento raro ’80-’90 – Vintage.

Signori, lo avevo detto io: sono Vintage, come la mia felpa.


FontePhotocredits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.