«L’uomo è condannato a essere libero»
(Jean-Paule Sartre)
«Video meliora proboque, deteriora sequor»: vedo le scelte migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. Ovidio, nelle “Metamorfosi”, affida a Medea questa ben celebre frase che sintetizza la lacerante condizione umana, capace non di rado di sfociare in tragedia.
Medea, donna ferita e tradita, vede chiaramente la via che sarebbe giusto seguire, ma si lascia trascinare dalla passione e dalla vendetta. Compiendo un gesto atroce, sceglie di assassinare i propri figli per punire con la loro morte il padre che li ha generati. In realtà, con gesto così estremo e senza ritorno, Medea non solo punisce Giasone, ma infligge una ferita mortale a se stessa, lasciando a noi un monito sempre vivo su quanto la ragione possa soccombere di fronte alla forza incontrollabile dei sentimenti.
E in effetti, il leitmotiv “vedo il bene e l’approvo, ma faccio il male” ha echeggiato nei secoli. Poeti come Petrarca e Foscolo, dibattendosi tra coscienza illuminata e passioni folli, hanno ripreso e rielaborato il verso ovidiano, confermandone l’intramontabile attualità.
Non solo letteratura: filosofi come Locke e Spinoza, e teologi come Paolo di Tarso e Sant’Agostino, hanno a lungo meditato sull’enigma che la frase contiene, cercando di scandagliare le ragioni che ci spingono a compiere gesti in aperto contrasto con i nostri principi più profondi.
Ora, caro lettore, adorata lettrice,
ad essere sincero, credo che il loro interrogativo risuoni nelle profondità del cuore di ognuno di noi. Tutti, nel corso della vita, siamo chiamati a combattere una battaglia interiore, una perenne lotta tra ragione e passione. È un conflitto che ci appartiene intimamente, una “singolar tenzone” capace di indurci a scelte che, come lame affilate, rischiano di affondare sia nella nostra carne che in quella delle persone che amiamo.
Potere dei classici, radice della loro universalità che attraversa tempo e spazio! Con una sola frase parlano non solo a noi, ma, ancora e ancora, di noi. Dei nostri limiti e delle sfide impossibili, delle aspirazioni e delle paure, del desiderio cieco e dell’amore casto, delle frustrazioni e dei voli più arditi.
“Vedo il meglio e seguo il peggio” è, dunque, un grido, un appello alla riflessione sulla nostra condizione umana, ma anche a far pace con noi stessi. Getta luce su un paradosso che ci costringe a confrontarci con la nostra complessità, con quella parte di noi che anela alla perfezione e quella che, invece, ci trascina verso l’ignoto. È una chiamata a riconoscere la nostra fragilità, ma anche a celebrare la nostra umanità, fatta di luci e ombre, di istinti contrastanti e di desideri spesso inconciliabili. Ci aiuta a maturare una consapevolezza che ci offre un’opportunità autentica: quella di diventare artefici del nostro destino, di scegliere la rotta da seguire, che si tratti di Itaca o delle Colonne d’Ercole, con dispiacere dei Proci, nel primo caso, o esultanza di chi, nella sua spesso triste e talvolta mediocre esistenza, non trova altra gioia che applaudire al naufragio dei prodi.
San Paolo: «Il bene che io voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio».
Sigmund Freud: «L’Io non è padrone in casa propria».
Søren Kierkegaard : «La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti».