«Nel suo profondo vidi che s’interna 
legato con amore in un volume, 
ciò che per l’universo si squaderna»

(Paradiso XXXIII, vv.85-87)

Vedere Dio. Quale uomo, quale donna può dire di non averlo mai desiderato? C’è forse una parola, nel vocabolario di tutte le lingue, più usata di questa? Dio, Dio, Dio. Dio esiste, Dio non esiste. Dio io lo conosco, Dio nessuno lo può conoscere. Dio è la fonte della mia esistenza, Dio non mi interessa. Dio, Dio, Dio…

Ed ecco che Dante ce lo dice: io l’ho visto.

Sì, l’ha visto.

Benedetto Croce ha scritto che la visione di Dante è davvero deludente. Ci ha condotti sin qui, per bene 99 canti, e poi tutto quello che sa darci è una descrizione geometrica dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione: il tempo, assai breve, di una folgorazione e può dirsi appagato. Lui sì, insiste Croce, noi no.

In verità, caro Benedetto, io vedo altro.

Non mi soffermerò sulla preghiera di Bernardo alla Vergine, l’ho già fatto all’inizio del nostro viaggio; non tenterò di sondare gli occhi della donna del Magnificat, capaci, pur di intercedere, di fissarsi nella luce eterna di Dio; né riprenderò le celebri terzine finali in cui si descrivono i tre cerchi di ugual dimensione e diverso colore, dei quali il secondo riflette in sé l’immagine umana.

La mia attenzione si appunterà su due terzine, la prima delle quali mi consente, sì, di intravedere Dio, mentre la seconda è cara a me come dovrebbe esserlo a chiunque pecchi di superbia intellettuale.

«Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna»

(Paradiso XXXIII, vv.85-87)

Eccola, la visione: non la tronfia definizione di un dogma, non un temerario volo nell’insondabile, compito per cui non si hanno penne (v.139), non la presunzione di possedere una conoscenza che ci supera.

Semplicemente: una luce, nella cui profondità ho visto collegate tra loro, come le pagine in un sol volume, tutte le realtà che nell’universo appaiono slegate, distanti, contraddittorie, insensate.

La visione è tutta qui: nel cogliere un legame dove sembra che non ci sia. Nell’intuire un senso.

E c’è dell’altro. Dante dà un nome a quel senso, a quel legame. Lo chiama amore.

Può sembrare banale, come dire che 1+1 fa 2, ma Dante questo vede e per questo ci ha condotti sin qui. Per dirci che Dio è amore, comunque lo si voglia concepire, e che è l’amore che lega ogni cosa in un volume.

È l’amore che a tutto dà senso. Al suo lungo viaggio, al suo esilio, alle sue pene. Al corso frastagliato delle nostre esistenze. Alle lacerazioni del mondo. Sempre e comunque, per Dante, la risposta, la visione, è l’amore.

Può non bastare, me ne rendo conto. Oppure può essere tantissimo.

Ti auguro la seconda opzione.

Quanto all’’ultima terzina che vogliono lasciarti, quella scritta per i superbi come me, beh, ci ricorda come dovrebbe essere ogni discorso su Dio, tanto più se si è convinti di aver superato un cammino ad ostacoli pur di arrivare a vederlo.

Dopo che Dante ha ossessivamente ripetuto che ciò che ha visto è infinitamente più di ciò che può ricordare e che ciò che può ricordare è infinitamente di più di ciò che può esprimere, dopo che ha ribadito che il suo dire sarà paragonabile solo alla sensazione di un sogno che svanisce, della neve che si scioglie al sole, dei responsi indecifrabili della Sibilla, dispersi come foglie al vento, dopo tutto questo confessa:

«Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella»

(Paradiso XXXIII, vv.106-108).

Ormai il mio parlare, anche rispetto al quasi nulla che ricordo, sarà più corto di quello di un neonato che bagni ancora le sue labbra alla mammella e tutto quel che sa dire è: bah, bah, bah.

Umiltà e stupore: è così che si vede Dio.

In ogni dove in cui s’indova.


FontePhotocredits: pixabay.com liberamente ridisegnato da Eich
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...

2 COMMENTI

  1. Riflessioni coraggiose che portano verso un altrove mai abbastanza inesplorato e che stupisce, appagando l’inquieto Odisseo che è in noi. Complimenti.

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