La solennità dell’Ascensione dal IV e V secolo era celebrata il giovedì della VI settimana di Pasqua; solo dal 1977 in Italia si celebra nella VIIa Domenica di Pasqua.
I testi evangelici e il 1°capitolo degli Atti degli Apostoli che raccontano l’evento dell’Ascensione, in realtà hanno alle spalle, alla fine del primo secolo dopo Cristo, difficoltà e persecuzioni che avrebbero potuto spingere le comunità cristiane a perdere quello slancio che li ha caratterizzate e a chiudersi in se stesse. Ma gli evangelisti, fedeli a una lunga tradizione di apertura, hanno il compito, nel mezzo dell’umanità che lotta e resiste contro le oppressioni, di spronare queste comunità per essere sale e lievito (Mt 5,13; 13,33) e, fedele al proprio Dio, porgere l’orecchio al grido degli oppressi (Es 3,7-12). Se questo sale perdesse il suo sapore, a cos’altro potrà servire? “Non serve né per la terra né per il concime!” (Lc 14,35).
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (At 1,11) L’Ascensione, più che una festa di apocalittici o di uomini eccitati dall’incubo di una fine, è un intreccio tra presente e futuro, tra esistenza e speranza. I grandi credenti non sono gli spacciatori di buone notizie ma quelli che elevano il cammino della gente avvicinando il cielo alla terra attraverso l’impegno, la volontà, il coraggio di combattere le sofferenze fino a tentare, compromettendosi, di allontanarle o a cancellarle del tutto: l’ascensione segna così l’inizio della missione “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,19-20). In questo, il tempo della Chiesa non è l’attesa illusoria o l’evasione dall’esistenza …verso il cielo (verso il paradiso): religioso non è l’uomo che pensa all’aldilà, ma colui che guarda alla vita con gli occhi della concretezza. È sulla terra che occorre dar prova dell’affidabilità della propria fede!
Gesù non ha speso la vita ad impartire benedizioni, ma nel compiere opere di bene: “Passò guarendo tutti dalle loro infermità” ricorda Pietro (At 10,38); né ha speso troppe parole per descriverci l’inferno, il purgatorio o il paradiso; ma ad assumerci le responsabilità nel tempo che è il nostro: senza fughe, né in un futuro apocalittico, né all’indietro verso un nostalgico passato che non c’è più.
Il grande messaggio evangelico non è stato affidato da Gesù ai vertici sacerdotali (alle istituzioni) perché lo custodissero, ma al popolo dei poveri e degli umili perché lo diffondessero. La sua Parola, quella evangelica, non è quindi parola di stabilità, ma dinamica, trasformante, che può portare l’annunciatore a trovarsi improvvisamente anche fuori da una certa compagine di strutture rassicuranti (i cristiani cacciati dal Tempio di Gerusalemme)… ma, pur trovandosi nella solitudine, è restituito a se stesso. Il giorno dell’ascensione quindi non è il giorno in cui le alienazioni religiose vengono legittimate ma è il giorno in cui esse vengono radicalmente condannate e l’essere umano restituito, fino in fondo, alle proprie responsabilità storiche.
La Chiesa scopre in questa liturgia il proprio destino ultimo e il proprio mistero: dopo che essa avrà compiuto il suo itinerario storico guarendo e annunziando, entrerà nella gloria attraverso la via della passione e della storia: beati saranno quei servi che il Signore, ritornando, troverà impegnati nel lavoro per i fratelli (Lc 12,37).