“Vivo per mediazione dei miei simili

più di quanto lo sia in carne ed ossa”.

(Mario Luzi)

Non lo decidiamo noi, non lo decidono gli altri, quando è il momento di abbandonarsi ai ricordi, non con nostalgia, ma con giustizia. Il momento di riandare con la memoria ad un incontro lontano con il poeta Mario Luzi, col quale già c’era una familiarità nutrita dalla lettura dei suoi versi, non mi sembrava ancora arrivato, anche se da qualche tempo i suoi libri avevano preso a invadere lo spazio della scrivania e a sostare sul comodino. Ma come dire di no ad un amico, anche a costo di imprecisioni, di intermittenze della memoria? L’amico s’accontenti allora di un’ancora incerta sinopia in vista d’un affresco futuro.

È stato il caso a decidere e il tempo e la modalità del primo incontro: un sorteggio m’aveva designato come terzo membro d’una minuscola e informale commissione per confermare nel suo incarico la collaboratrice linguistica di Mario Luzi, docente di lingua e cultura francese presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze.

Così, in un sabato di giugno del 1981, verso le dieci, quando giunsi in Via Laura, nella sede storica della Facoltà, due persone mi aspettavano sulla soglia del portone d’entrata: alto, magro, leggermente curvo, Mario Luzi; poderoso, vivace, gesticolante, Mario Matucci, docente di Letteratura francese a Pisa. Non si perde tempo: si devono solo sbrigare alcune formalità per garantire al poeta Mario Luzi, che tiene il Corso dedicato ai poeti francesi del Novecento, una collaboratrice che assicuri l’insegnamento della lingua. Un vecchio bidello, lievemente infastidito di dover prestar servizio in un sabato mattina, ci guida verso un’auletta. Dopo un rapido controllo della documentazione, faccio timidamente osservare che la candidata non possiede i requisiti richiesti dal bando: Matucci mi richiama al mio compito di segretario, che mi affretto ad assumere, lasciando agli impiegati competenti il compito di risolvere l’aspetto giuridico. (Qualche mese più tardi in una stradina del quartiere latino avrei incontrato il Matucci che, scusandosi, m’informerà che il ministero aveva respinto la domanda).

Pagato questo piccolo prezzo burocratico, quando ormai è quasi mezzogiorno, Luzi mi propone d’accompagnarlo nella sua abitazione in Via Bellariva, un quartiere anonimo a una decina di metri dalla riva dell’Arno, per mangiare un boccone con lui. Il professore, invece, rientra in famiglia, riconvocandoci nel pomeriggio per la firma del verbale. L’appartamento dove Luzi vive solo è all’ultimo piano di un condominio di sobria eleganza. Non molto grande ha però un vasto terrazzo aperto sui tetti di Firenze e la cupola del Brunelleschi. Nello studio, una libreria bianca dove sono sistemati i libri e alcune mensole scure dove sono ammonticchiate delle riviste, alle pareti, quadri di amici pittori. Sulla grande scrivania, ben visibile, un grosso quaderno rilegato in pelle con fogli di carta vergatina, papier bible, come dicono i francesi. S’accorge che lo sto guardando e intuisce: «È  su quel quaderno, mi dice, che scrivo le poesie».

Ci accomodiamo in cucina, cerca qualcosa nel frigorifero e mette in tavola del formaggio, dei pomodori e alcuni frutti. Poi si guarda intorno e da una mensola, trionfante, prende una bottiglia di Cirò che mi propone sorridendo di bere insieme. Del motivo per cui sono venuto a Firenze non si parla: mi chiede del lavoro che svolgo a Padova, un città che conosce bene, dove si reca spesso, anche per ragioni famigliari perché vi abita una sorella. Dopo il pasto frugale mi propone una siesta: in casa ci sono due divani, possiamo riposarci un poco entrambi.

Dopo la siesta, prendendo il caffé, spontaneamente si comincia a parlare di poesia. Vede che ho con me i due tascabili della Garzanti dove sono raccolte le sue poesie. Li prende e con una biro, sorridendo divertito, mi dice che vuole apportarvi una correzione d’autore. «Nei miei versi m’avviene raramente di nominare Dio ma qui, mi dice, mostrandomi un capoverso, un refuso me lo fa nominare a sproposito». Poi da una mensola prende una minuscola plaquette e me la offre dopo avervi tracciato, con la sua calligrafia sottile e inclinata, che poi mi diverrà familiare, una dedica.

Quando ritorniamo in Università, il professore ci sta già aspettando: ha redatto lui stesso il verbale che non ci resta che sottoscrivere. In treno prendo tra le mani la plaquette: contiene un breve testo intitolato Ritorno a Siena. L’ho conservata con cura negli anni; sulla copertina un disegno leggero, verde, in punta di penna, accenna il profilo di Luzi. Lo prendo ora dalla libreria e il ricordo si rinnova, torna a farsi vivo: sono passati molti anni, ci sono stati altri incontri, a Firenze, a Padova dove lo riportavano affetti ed eventi, incontri pubblici, alla fine dei quali una stretta di mano, un sorriso alludevano ad un’intesa che non aveva bisogno        d’essere esplicitata; una breve lettera, gentile, quando gli ho inviato il mio primo scritto su Simone Weil, che lui stesso aveva contribuito a far conoscere in Italia, regalandone i libri a Cristina Campo che se n’è impossessata con passione.

L’incipit della plaquette recita: «Non so neppure oggi, dopo tante volte che il fatto si ripete, che cosa mi richiami imperiosamente a Siena e che cosa me ne faccia subito allontanare. La città è della mia prima adolescenza; ma lusinga anche i miei superstiti sogni di uomo maturo. A che cosa obbedisco salendo sulla corriera che, superate le magre boscaglie di pini si addentra nella Toscana profonda, alla memoria e alla speranza, a un doloroso compiacimento o al diletto?».

Già, la corriera, questo mezzo di trasporto umile che mette in un contatto immediato con il popolo, con la gente semplice che Luzi, dopo la fase ermetica, ha ritrovato e di cui apprezza e trascrive la rude saggezza. La corriera è una poesia, pubblicata nel 1965, in un libricino un tempo bianco e ora ingiallito, con un bel titolo, Dal fondo delle campagne. È necessario cominciare da questa magra silloge e da questa poesia per capire come si costruisce la sua religiosità e la sua etica severa, fatta di gesti semplici e quotidiani, appresi dalla madre molto amata, a contatto con uomini in carne e ossa, quelli che gli siedono accanto, nei loro vestiti logori, da cui emana l’odore della fatica, con i loro volti segnati dal peso delle preoccupazioni:

La corriera procede a strappi, muglia.

Chi nativo di qui ravvisa il giogo

cima per cima segue in lontananza

tutta l’azzurra cavalcata: il vento

profila i primi monti

bruciati dall’altezza,

fa livido il colore

più cenere che fiamma

che ha il querceto d’inverno

su queste terre d’altopiano,

sferza, ostacola i muli sulla tesa,

stride sui cumuli di brace. Gli altri,

chi recita il breviario a voce bassa,

chi sonnecchia, chi parla dei suoi traffici

di buoi, di lana, di granaglie e volge,

se volge, un occhio disattento al vetro.

 

Chiudo gli occhi  sopra questo lembo

di patria, stretto contro lo schienale

ascolto questa gente, questo vento,

vivo per mediazione dei miei simili

più di quanto lo sia in carne ed ossa.

Chiudo il libricino bianco di Einaudi e prendo il grosso volume mondadoriano del 1998, che raccoglie l’intera sua produzione fino a quell’anno: sulla copertina protetta dalla plastica ho sistemato una foto che ritrae Luzi in maniche di camicia, alto, invecchiato, davanti alla libreria bianca. Due segnacoli fissi mi permettono di ritrovare subito due poesie. La prima è un’invocazione, o forse una preghiera, che mi ripeto ogni volta che sono colto dal timore di perdere colei che amo o quando il caso o la malattia si portano via qualche amico. È la seconda parte che mi commuove ogni volta:

T’invoco per la notte

che viene e per il sonno;

tu che soffri,  tu sola puoi soccorrermi

in questo cieco transito dal tempo

al tempo,  in questo aspro viaggio

da quel che sono a quello che sarò

vivendo una vita nella vita,

dormendo un sonno nel sonno.

Tu, adorata, che soffri con me,

di cui mi dà vertigine pensare

che il tempo, questo freddo

tra gli astri e sulle tempie e altro, contiene

la nascita, la malattia, la morte,

la presenza nel mio cielo e la perdita.

Nella seconda, Augurio, rievocando implicitamente la madre, una presenza costante in gran parte della sua poesia, dalla cui pazienza e dedizione ha molto appreso, dà forma ad una religiosità sobria, fatta di gesti semplici, di accoglienza e di cura, di silenzio. Più tardi verranno poesie in cui la religiosità, più contrastata, ingloberà i conflitti e le preoccupazioni del nostro tempo, disegnando una sorta di storia civile del nostro paese, facendo di Mario Luzi la voce più pura e intensa del secolo che abbiamo lasciato alle spalle. Un poeta che ha insegnato a guardare alla natura non come un paesaggio o un fondale, ma come a una realtà di cui siamo parte, e parte fragile. Un poeta che solo la nostra distrazione ci impedisce di capire quanto ci potrebbe essere d’aiuto in questi tempi sovrastati da parole gridate, spesso insensate, incapaci di silenzio e di pudore. Intanto, per accomiatarci, riascoltiamolo in questi versi:

Ora che tutt’intorno, a ogni balcone,

la donna compie riti

di fecondità e di morte,

versa acqua nei vasi, immerge fiori,

ravvia le lunghe foglie, schianta

i seccumi, libera i bottoni

per il meglio della pioggia,

per il più caldo del sole,

o miei giovani e forti,

miei vecchi un po’ svaniti,

dico, prego: sia grazia esser qui,

grazia anche l’implorare a mani giunte,

stare a labbra serrate, ad occhi bassi

come chi aspetta la sentenza.

Sia grazia esser qui,

nel giusto della vita,

nell’opera del mondo. Sia così.

Questo, amico, è solo l’inizio, ma intanto «sia grazia esser qui nell’opera del mondo».


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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.