La tesi di laurea magistrale dell’andriese Federica Montrone: si chiama “Elettra” il progetto per cui ha ricevuto il premio “Ing. Bertelè”

Cosa si prova a conseguire un riconoscimento quale il premio “Ing. Bertelè”, istituito dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Torino?

Il premio ha l’obiettivo di riconoscere l’innovazione nel percorso formativo dei neolaureati in vari campi della ingegneria a livello nazionale, quindi sicuramente sono anzitutto onorata per aver conseguito un riconoscimento del genere. Secondariamente, ma non assolutamente meno importante (anzi!), la gratificazione percepita mi ha fatto sentire estremamente energica. Ho interpretato questo premio non solo un riconoscimento per quello che ho fatto ma anche come un atto di fiducia nei miei confronti per quello che potrò realizzare in futuro. Quindi questo è sicuramente un bel traguardo, ma mi ha fatto anche sentire di voler alzare ancora un po’ l’asticella, e quella gratificazione ha generato in me l’energia necessaria per guardare ancora un po’ più lontano e spingersi ancora avanti. E per fare questo serve un’energia sempre costante e sempre maggiore. 

In cosa consiste il progetto ELETTRA, argomento principale della tua tesi di laurea “Development, validation, and optimization of a versatile electrical stimulator for cardiac tissue engineering”?

Il progetto, frutto di un lavoro di squadra e multidisciplinare svolto in collaborazione con il Gruppo di Biomeccanica dei Solidi e dei Fluidi del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – DIMEAS – del Politecnico di Torino e presso il Cardiac Surgery and Engineering Lab dello University Hospital of Basel, si inserisce nel campo delle malattie cardiovascolari che ad oggi sono ancora la prima causa di mortalità al mondo. Per questo c’è una necessità sempre più forte di ricorrere a strategie terapeutiche diverse, innovative. 

È qui che si inserisce il campo in cui ho operato nel lavoro di tesi, ossia l’ingegneria cardiaca tissutale, la quale ha l’obiettivo di andare a ricreare dei sostituti di tessuto cardiaco, sia per poter studiare le patologie cardiache e per poter andare a rigenerare un tessuto infartuato. Per fare ciò quindi dobbiamo essere in grado di andare a riprodurre la complessità del nostro cuore. Semplificando al massimo, per ricreare questi sostituti funzionali ci servono almeno tre elementi: un’impalcatura (detta scaffold), delle cellule adatte che popolino questa struttura e degli stimoli che mimino quello che avviene nel cuore, quindi almeno uno stimolo di tipo meccanico e uno di tipo elettrico.

Ed ecco che qui si inserisce ELETTRA, che è appunto uno stimolatore elettrico pensato per mimare gli stimoli di tipo elettrico presenti nel miocardio e fornire quindi quella stessa stimolazione ai tessuti ingegnerizzati per fare in modo che si sviluppino adeguatamente.

Oltre ad occuparmi della parte tecnica, mi sono occupata anche di andare ad effettuare una serie di esperimenti biologici per comprendere l’efficacia della stimolazione elettrica. Per questo il lavoro fatto mi ha dato la possibilità di operare in un contesto fortemente multidisciplinare, permettendomi di avere una panoramica abbastanza generale di tutto il campo.

Possiamo considerare lo stimolo elettrico in vitro del miocardio per la coltura di tessuti ingegnerizzati cardiaci, una sorta di “riappropriazione” dell’essere umano che, in quel momento, si sta perdendo?

Io purtroppo o per fortuna ho un linguaggio e un pensiero essenzialmente legato alla scienza e ai tecnicismi per cui inevitabilmente declinerò la mia risposta secondo questa grammatica. Quello che penso è che questo tipo di ricerca, come ho detto prima cerca di trovare una soluzione ad un problema che si potrebbe definire di natura esistenziale riferendosi al senso stretto della parola: senza delle cure appropriate per queste patologie, l’esistenza cessa. Il fatto che la scienza e l’ingegneria stiano sempre più mettendo al servizio le proprie risorse per problemi di questa portata, evidenzia una presa di coscienza di queste necessità, una necessità che è appunto di tipo esistenziale. Vogliamo risolvere questo problema, perché vogliamo rimanere qui, il più a lungo possibile e vivendo al meglio possibile. Più di riappropriazione parlerei quindi di affezione dell’uomo alla vita. 

Anche l’ultimo anno ha secondo me evidenziato questa presa di coscienza e questo atteggiamento, tanto che infatti l’innovazione nel campo medicale ha registrato un crescente interesse e di conseguenza una crescita del settore, in controtendenza rispetto al resto  del mercato. Questo è sicuramente un dato che ci dice molto.

Nemo propheta in patria?

Diciamo che da sempre ho sentito la necessità di esplorare luoghi a me estranei: amo mettermi in gioco sempre, trovo che per me sia l’unico modo per guardare oltre e cercare di trarre il massimo da me stessa. Sono andata via dalla mia città a 19 anni, proprio per assecondare questa mia necessità e soprattutto per trovare quella formazione che desideravo crearmi e che dovevo necessariamente cercare altrove. Non ho mai demonizzato la mia città di provenienza, ma sicuramente penso che un individuo per comprendere se stesso e completare se stesso non può avere la presunzione di essere capace di farlo senza mai farsi domande. Il mio modo di pormele è quello di fuggire dalle condizioni di confort, sperimentare nuovi ambienti trarre il massimo da ognuno di essi. Nell’ultimo periodo l’ho fatto di continuo e ho raccolto delle esperienze che mi hanno generato nuovi punti di vista e maggiore comprensione della realtà intorno a me. Non credo ce l’avrei fatta senza pormi questo tipo stimolo, continuamente.