30 agosto 2019
(Acca)

Trecentossessantacinque giorni or sono scrivevo che la vita sembrava improvvisamente essere diventata un manicomio.

Ventiquattro ore prima avevo ricevuto la telefonata che mi avrebbe destabilizzato l’intera esistenza, dodici ore prima avevo deciso che dovevo scendere in trincea senza possibilità di remissione; dieci ore prima, quella che era la mia stessa voce diceva: “non andartene”, eppure, evidentemente contro me stessa, scelsi di andare, senza mai farlo davvero. Non mi capii mai.

Certo, non finora, quando quella mia stessa voce dice: “vattene”, ma è un’altra storia. Comunque no, sento di potervi tranquillizzare, non sono schizofrenica.

La mia amica mi dice sempre che io ho una mente tremendamente meccanica; mi conosce da vent’anni, c’è da fidarsi. La mia mente usa il tempo in modo autonomo e depenna tutti i dettagli che mi fanno male, li cancella completamente. Quelli troppo duri, che non supererei: ha il potere di farmeli dimenticare.

Sarà per questo che io di oggi ricordo solo cose emblematiche: la pioggia, l’impossibilità a trovare rifugio causa raduno degli spazzacamini e le risate senza fine con chiunque sentisse che gli spazzacamini esistono davvero… e si radunano una volta all’anno scatenando il putiferio di turismo e festa. La mia casa, che appena aperta mi comunicò: “non mi riconosci? Sono troppo simile a quella in cui sei cresciuta” (cavolfiore stufato, se era vero!); una voce palermitana senza volto che tramutatasi in carne, una volta superato un angolo, mi aprì la sua porta di casa, gratis, lasciandomene le chiavi il giorno dopo ed affidandomi anche suo figlio (che se ci pensate è peggio: la voce di una pazza doveva essere! La voce del mio angelo custode, si è rivelata).

E poi lo so, lo so bene che da quel giorno, fra le tante cose incredibilmente fantastiche che non elenco per evitarvi noia, ce ne sono state molte altre nere come gli abissi. In realtà all’inizio solo un poco grigie, ma che come la spirale discendente dei libro dei Giudici nella Bibbia, non hanno fatto che oscurarsi sempre più, fino a cadere nell’oblio del buio pesto.

Questo per dire che è vero, la mia mente è tremendamente meccanica. Ma in realtà cancella le sensazioni che mi ammazzano, non del tutto gli eventi, permettendomi così di non farmi mangiare mai dal pessimismo cosmico (che non era leopardiano, un giorno a quattro mani sfateremo definitivamente questo falso mito), ma impedendomi di dimenticare quanto in guardia sia necessario stare in questo mondo fatto di pantere travestite da indifesi cuccioli di micio, con il pelo sparuto e nero e giganti, bellissimi, innocenti occhi chiari.

E così passano trecentossesantacinque giorni, che sembrano niente, ma guai a ripercorrerli: ce ne vorrebbero molti di più per raccontarli con onestà e dovizia di particolari. Specie perché di belli ce ne sono stati incredibilmente troppi. Citandomi: “impensabile ed impossibile non sono sinonimi”, spero vogliate darmi fiducia e credermi. Vi giuro che è la Verità. Nel bene e nel male.

Sarà un caso, lo sconvolgimento della mia esistenza porta il nome di un posto che non esiste, se non per la sua iniziale: Domodossola, per i suoi abitanti Domo.

Domo, domus, casa.

Eppure resta che casa non è un luogo. Nemmeno questi trecentosessantacinque giorni hanno potuto smentire questo assioma.

Ma è per le strade di Domo che oggi ho incontrato un bambino con la sindrome di down. Io li attiro i bambini ed i ragazzi, non lo faccio di proposito: è la mia natura e, poiché sono fortunata come sempre ripeto, è anche il mio lavoro (quello che Domo mi ha donato).

Di luoghi cattivi ce ne sono troppi su questa terra, di case velate siamo pieni, di gente tagliente ed assassina c’è sovrannumero, gli stupidi superano l’immensità del sistema solare, in proporzione.

E quindi ho pensato: non è incredibile che l’eccesso di un solo cromosoma, guardato come sindrome perché tale è, possa cancellare tutta la cattiveria e la deficienza umana?

Sì, ho detto deficienza: perché davanti a quel bambino, la deficiente ero io, che ho tutti i cromosomi a posto e non solo quelli.

Anzi, tutto quanto mi appartiene ed è al suo posto nel modo giusto, fatta eccezione per il cervello (che è da vedere quanto a posto sia), è quanto di più nauseabondo io ritenga di possedere: il primo metro di misura, quello da cui non si può prescindere, la calamita. #Loschifo.

Buon primo compleanno, Domo! Questa candelina la spegniamo così, soltanto io e te, che ancora di strada ne abbiamo, tutta in salita, come le tue montagne; non ho la presunzione di giurare che si possa raggiungere una vetta, siamo talmente insignificanti a volte, così facilmente sostituibili, da non poterlo affatto dare per assunto.

Ma sai una cosa? Anche se non posso donarti il mare, ci saranno giorni in cui potrò portarti, in altro modo, il suo orizzonte: anche tu, che non puoi conoscerlo, imparerai che al di là di quella distesa sconfinata, c’è vita.

Se da te io devo ancora imparare a camminare, tu da me puoi imparare a nuotare. È davvero una quasi magia, effetto Fata Morgana, vera parte del creato; io lo conosco perché ci sono nata e questo te lo devo.

Un giorno ti mostrerò cosa significa il sostantivo orizzonte e ti insegnerò la categoria mentale necessaria per comprenderlo. Da te continuerò ad esigere la notte stellata, a te donerò (in quell’altro modo ed in un qualche tempo) il senso delle acque: è una Promessa. Sì, Domo, con la P.

Come chi prima sognava i suoi dipinti e poi dipingeva i suoi sogni. Era Vincent. Vincent Van Gogh.

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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.