Parliamo di chi fa il lavoro sporco, di chi non brilla e non concede sorrisi. Almeno così sembra. Di chi non si mostra con la migliore cera possibile, di chi è l’outsider del gruppo, di chi se ne frega dei complimenti e fa quello che deve fare a muso duro.
Parliamo della Befana, quindi.

Lei in effetti fa il lavoro sporco, non solo perché ha a che fare con il carbone e, a differenza di Babbo Natale – così rubicondo, in salute, col completo sempre nuovo, dai colori rassicuranti e la sua slitta comoda comoda – gli anni non se li porta tanto bene e se ne va in giro di notte per tutto il globo, ma in prima istanza perché tutte queste ragioni, messe insieme, be’ fanno della Befana una figura un po’ controversa. E poi è vecchia, brutta e gobba, con il naso adunco e il mento aguzzo, vestita di stracci e coperta di fuliggine, perché entra nelle case passando dal camino. Che poi, non si è mai capito perché Babbo Natale, pur passando da lì, riesca a non sporcarsi mai, ma questa è un’altra storia.

A porre la Befana, però, in una zona di confine, che poi è quella dell’antagonismo, in un certo senso, c’è il fatto che è giustizialista. Perché lei non fa come Babbo Natale, che se sei stato cattivo non ti porta i doni, lei “punisce”. Cioè castiga col fine di educare, di dare la cosiddetta lezione. E questa è una scelta coraggiosa, perché così facendo si cuce addosso la fama della “cattiva”. L’aspetto poi non l’aiuta.

Io me lo ricordo: da bambina era tutto un aspettare Babbo Natale, lasciare i biscotti vicino all’albero, e poi l’attesa della mattina del 25, per scartare i doni e controllare che ci fosse qualche segno del suo passaggio e, delle volte, le notti erano in bianco al fine di beccarlo. Invece la Befana, be’… sì c’era la magia, l’attesa – perché sapevo di essere stata buona e quindi di ricevere i dolci e non il carbone – ma l’obiettivo era la calza. Piena. Punto. Di incontrarla non è che proprio fremessi. E in effetti, a guardar bene, l’iconografia tradizionale non viene proprio in suo aiuto. Senza contare poi il fatto che dovrebbe volare a cavallo di una scopa, e cioè praticamente essere una strega: insomma, non del tutto rassicurante. Ma tutto questo l’avrà voluto lei?
Insomma, la Befana lavora sodo, se ne frega delle convenzioni, degli ori e degli addobbi. E porta anche “le scarpe tutte rotte”. Ma perché nel tempo è diventata così? O lo è sempre stata?

Forse non tutti sanno che la nascita della vecchina (che sarà stata anche giovane… ma ve l’immaginate?!), si perde nella notte dei tempi e nello specifico in tradizioni magiche precristiane, probabilmente legate a usanze celtiche: strani riti officiati da maghi – sacerdoti chiamati “druidi” – durante i quali venivano bruciati grandi fantocci di vimini per onorare divinità misteriose o dedicati ai cicli stagionali legati dell’agricoltura, quindi relativi al raccolto dell’anno trascorso. E proprio dal rito dei falò deriva l’usanza del carbone nelle calze, insieme ai dolci, in ricordo cioè del rinnovamento stagionale e dei fantocci bruciati. Solo successivamente, in un’ottica che propendeva più a crearne una morale, il carbone è stato ritenuto una punizione per le malefatte dell’anno passato. In ogni caso, permane anche in questa trasmigrazione di senso, l’origine primaria, che è quella di salutare l’anno trascorso, in qualsiasi modo si ritenga giusto.

Gli antichi Romani, poi, ereditarono questi antichi riti, associandoli alla ricorrenza del Sol Invictus, già in auge. La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura e i Romani credevano che, in queste dodici notti (il cui numero era uno specifico riferimento ai dodici mesi dell’innovativo calendario romano), misteriose figure femminili volassero sui campi coltivati per propiziare la fertilità dei futuri raccolti (da cui il mito della figura “volante”). Queste donne in volo furono dapprima credute come personificazioni di Diana, la dea della cacciagione e della vegetazione, e ancora associate a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della Sazietà), oppure Abùndia (dea dell’Abbondanza).

Un’altra ipotesi collegherebbe la Befana con un’antica festa romana, che si svolgeva sempre in inverno, in onore di Giano e Strenia (da cui deriva anche il termine “strenna”) e durante la quale c’era già l’abitudine di scambiarsi regali, ed ecco la ragione del significato del termine strenna, appunto.

Intorno al IV secolo d.C., l’allora Chiesa di Roma cominciò a condannare tutti riti e le credenze pagane, e questo diede origine a molte rappresentazioni che, a partire dal Basso Medioevo, confluirono nell’attuale figura, che evidentemente ha le fattezze di una strega. Ecco perché il suo “mezzo di locomozione” è proprio la scopa volante, antico simbolo ritenuto strumento di stregoneria. Ma l’aspetto vetusto e “stregonesco” sarebbe anche la raffigurazione simbolica dell’anno vecchio che, una volta concluso, si brucia, così come accadeva con i fantocci degli antichi riti.

Ma non è finita qui, perché ci sarebbe una leggenda, risalente al XII secolo, secondo cui i Re Magi, diretti a Betlemme per portare i doni a Gesù Bambino, non riuscendo a trovare la strada, chiesero informazioni a una vecchina. I tre insistettero a lungo affinché li seguisse per far visita al piccolo, ma lei, imperturbabile, si rifiutò. In seguito, però si pentì e così, dopo aver preparato un cesto di dolci, si incamminò in cerca dei tre Re. Durante il lungo tragitto si fermò in ogni casa presente sul suo cammino, donando dolciumi a tutti i bambini che incontrava, nella speranza che uno di loro fosse il piccolo Gesù. E pare quindi che da allora, per farsi perdonare, girerebbe il mondo facendo regali ai bambini, i quali, a loro volta, hanno cominciato a mettere scarpe o calze fuori dall’uscio di casa affinché la vecchina potesse avere un ricambio durante il suo lungo vagabondare; se, però, non ne avesse avuto bisogno, le avrebbe lasciate lì, riempiendole di dolci, per l’appunto.

Più che una storia quindi, quella della Befana è un’evoluzione, una strada da percorrere non solo di notte, ma nel proprio cuore, in cerca forse della magia cui voler credere. Ed è questo tentativo che si fa immortale, più che la figura della vecchina che regala dolciumi. È il perpetuarsi di un’azione che diventa rito, si fa tradizione e a cui i bambini guardano con occhi sognanti. Non una nascita, un’origine, un dato, ma un incrociarsi di credenze, di cieli stellati in cui vedere ciò che si vuole, di attese trepidanti, di timore celato, ma sempre “dorato”.

Una piccola magia. È questa la mia Befana, a cui, con queste righe, spero di aver regalato io un dolcino, una volta tanto.