Sappiamo che non dovremmo lasciarci travolgere dall’angoscia. Sappiamo che non vorresti vederci così. Ma, ora, l’anima nostra è triste, Ulisse caro, lo è fino alla morte…

“Ama e fac quod vis” – “Ama e fa’ quel che vuoi”: le parole sono di Agostino, ma, vergate a mano, con la sua mano, me ne fece dono don Ulisse. Me le scrisse come dedica del suo libro, La catechesi…

Già, perché don Ulisse Marinucci, il prete marinaio – discendeva, orgogliosamente, da una famiglia di pescatori e la sua vocazione per il mare era dichiarata già nel suo nome e nel suo cognome – il prete factotum, capace di restaurare un pianoforte antico, così come di realizzare, di sana pianta, un mobile nuovo, il prete facchino, giovane e forte, che non si faceva problema di caricarsi di lavori pesanti o di spazzare e lavare in parrocchia, prima o dopo una festa o un concerto, il prete che aveva accolto l’orchestra giovanile e il coro femminile Punto di Valore, il prete delle catechesi domenicali, da tenere in pochi minuti, dall’altare, a fine messa, sì da poter raggiungere il maggior numero di persone possibile, il prete umile e buono, amico di tutti, attento ai piccoli e ai giovani come agli anziani, alle famiglie come a chi era rimasto solo, il prete don Ulisse era anche un fine teologo, licenziato in Teologia e Scienze patristiche, curatore dell’edizione italiana del “De Catechizandibus Rudibus” di sant’Agostino, il cui stile, evidentemente, aveva assimilato nell’approccio ai suoi fedeli vicini e lontani.

Io don Ulisse lo conoscevo, di fama, da quando era ancora seminarista, attraverso i racconti di una comune sorella. Don Ulisse l’ho incrociato, solo, poco più di un mese fa. Ma non è stato solo un incontro. È stato un riconoscersi. Un ritrovarsi tra due fratelli che si son conosciuti da sempre, a dispetto delle circostanze. Ci accomunava la stessa visione del mondo, la stessa visione della Chiesa, lo stesso amore per la gente, per ogni donna e ogni uomo, a prescindere dalle loro idee o appartenenze. Ci accomunava l’amore per il mare. Il nostro primo incontro già si rivelava come la promessa di una lunga e intensa amicizia e avevamo un appuntamento: il prossimo 2 giugno Ulisse ci avrebbe guidati, in barca a vela, fino alle Tremiti che il sottoscritto, lo scrivo con vergogna, non ha ancora visitato.

Ulisse non mi ci potrà più condurre. Gli angeli, si dice, hanno fretta di tornare in cielo. E solo questo può consolarci: l’idea che Ulisse fosse, in qualche modo, un angelo prestato alla terra. Un angelo in carne e ossa, o forse un gabbiano, che è ora volato nel suo luogo connaturale. Da lì potrà continuare a seguirci e amare: così speriamo. Ma lo strappo con cui ci lascia è troppo amaro. Sanguina. Non è facile da consolare. Ci lascia nello strazio…

Ulisse caro, la morte, rapida, violenta, imprevedibile e improvvisa, ti ha raggiunto l’ultimo giorno dell’anno, mentre preparavi il cenone per i più poveri e mentre ti accingevi a spezzare il pane e la parola per i tuoi fedeli, gli stessi per i quali avresti dato la vita: gli stessi per i quali hai dato, ogni giorno, la tua vita.

Difficile immaginare, per un presbitero, una fine, nello stesso tempo, più tragica e bella. Difficile immaginare quanto grande sia il dolore di un intero popolo che ora ti piange e si sente orfano: penso alla comunità della parrocchia del Carmelo di Termoli, ma penso a tutta la tua diocesi, penso a quanti hanno avuto la fortuna di conoscerti e sperimentare la forza e la dolcezza della tua persona.

Sappiamo che non dovremmo lasciarci travolgere dall’angoscia. Sappiamo che non vorresti vederci così. Probabilmente, ora, se potessi, ci rimprovereresti e ci diresti che non è questo che ci hai insegnato. Ma, ora, l’anima nostra è triste, Ulisse caro, lo è fino alla morte. E ci vorrà del tempo, prima che risorga. Noi speriamo si tratti solo dell’attesa del terzo giorno, ma tu, Ulisse caro, mandaci un segno da lassù: ne abbiamo bisogno!

Allora buon vento e buona navigazione, Ulisse caro! Quando avremmo bisogno di ritrovare la stessa polare, proveremo a ricordare le tue parole, che così bene ti dipingono: «La catechesi non è soltanto un insegnare (docere), ma è, soprattutto, un invito, un cammino, un movere animum, attraverso la charitas, principio e fine di ogni atto catechetico. Nell’esperienza concreta della soavitas dell’amore di Dio, sperimentata nella persona storia di salvezza (narratio), catechista e catechizzando scelgono, consapevolmente, di aderire a Cristo, convertendosi a lui con tutto il cuore» (Ulisse Marinucci, Introduzione a Sant’Agostino, La catechesi, Città Nuova, Roma 2005, p.15).


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...