Ugo Tognazzi ci ha lasciato la notte del 27 ottobre 1990

“Massimiliano sta vicino a ‘a mamma, sta ‘o guaglion’, e se move pe gghi’ a quacche parte, ‘a mamm’ prima che ‘o chiamm’ “Ma-ssi-mi-lia-no!” ‘o guaglione già chissa addò sta, che sta facenno. Non ubbidiscono perché è troppo luongo’, invece Ugo, tu lo chiami Ugo.. chillo come sta vicino a ‘a mamma che se sta pe’ move, “Ugo!” ‘o guaglione non ha nemmeno ‘o tiemp, capit’?”

L’illuminante asserzione è del grande Massimo Troisi che, in “Ricomincio da tre”, elogia il beneficio di chiamarsi Ugo. Beneficio, o forse meglio dire, privilegio di aver visto recitare un altro Ugo, Ugo Tognazzi, il “colonnello“ della commedia italiana, mattatore, insieme a Gassman, Manfredi e Mastroianni, di cult popolari e formativi che gli hanno permesso di vincere tre David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e, nel 1981, la Palma d’Oro a Cannes come Miglior Attore per “La tragedia di un uomo ridicolo“, interpretazione drammatica diretta da Bernardo Bertolucci.

A trent’anni dalla sua scomparsa, Ugo Tognazzi non ha smesso di commuoverci e divertirci, offrendoci scorci di una Prima Repubblica vogliosa di rimettersi in gioco dopo i disastri della guerra.

La sua è una satira caustica e capziosa, un’operazione riuscita perfettamente in “Vogliamo i colonnelli“, anacronistica e antesignana denuncia degli scandali perpetrati fra gli scranni della politica italiana, da cui trae ispirazione il soprannome di “colonnello“, appunto.

Ugo Tognazzi ci ha lasciato la notte del 27 ottobre 1990, dopo aver regalato al pubblico italiano sketch e gag intramontabili e aver risollevato il morale delle truppe militari impegnate nel conflitto con spettacoli leggeri, piccole pièce teatrali che non lasciarono indifferente Wanda Osiris, unica capocomica a notarlo e a trascinarlo prima sul palco del Teatro Puccini di Cremona e poi a Cinecittà dove inizia collaborazione con personaggi del calibro di Mario Mattoli, Walter Chiari, Luciano Selce, Dino Risi e Raimondo Vianello con cui si rende protagonista di una scenetta irriverente sull’allora Presidente della Repubblica, Gronchi, che gli costa il contratto in Rai.

Tognazzi ha sfidato se stesso come i canoni di un Cinema alle prime armi. Non era bello ma affascinava chiunque, pur non essendo all’apparenza intellettuale non c’era regista di classe che non desiderasse scritturarlo. Eccesso e provocazione in Tognazzi viaggiavano all’unisono, era la tipica incarnazione dell’uomo normale che affronta, con sconcertante surrealismo, le paturnie di tutti i giorni, l’irreprensibile maschera del Conte Mascetti in “Amici miei“ di Mario Monicelli.

Sorpreso dalla depressione, passa molto tempo a Parigi gettandosi nel lavoro e girando in media due pellicole all’anno con importanti firme quali Scola, Petri, Avati e Molinaro.

Di recente, sua figlia Maria Sole gli ha dedicato il documentario “Ritratto di mio padre“, mentre gli altri due maschietti Ricky e Gianmarco hanno cercato di ricalcare le orme di una carriera meno brillante dell’illustre papà.

La cifra stilistica di Ugo Tognazzi trasforma qualsiasi fragilità, vizio e difetto dell’uomo contemporaneo in eterna bellezza, lo straordinario sguardo di un artista mai banale e sempre amorevole.