Nasce una nuova rubrica per Odysseo, con appuntamento settimanale fissato al sabato. Il titolo, di per sé, non avrebbe bisogno di spiegazioni: Intercultura. Come dire: un processo in atto inarrestabile, che comporta la declinazione pratica di una scelta organizzativa e pedagogica inclusiva, volta non a “normalizzare il diverso”, ma, piuttosto, a valorizzare la “convivialità delle differenze”.
22marzo 2023. Sono a Perth per due mesi. Ho portato la mascherina per 12 ore. Poi quando ho provato a dormire fallendo miseramente ho messo la mascherina sugli occhi. Bene è quasi impossibile con la maschera su naso e bocca e la maschera sugli occhi respirare. Ti viene la claustrofobia anche se non la conosci. Adoro gli aeroporti perché c’è intercultura in aereo. Non è la stessa intercultura che c’è al CPIA – Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti, scuola pubblica in Italia -. Al CPIA fra gli immigrati c’è una intercultura diversa frutto dell’esperienza del viaggio e ancora diversa è quella che c’è dentro al carcere fra i ristretti.
Anche lì l’Intercultura è diversa. Tutti questi tre contesti creano inesorabile intercultura ma nei CPIA e nel carcere nessuno ‘sclera’ per insofferenza. Al CPIA ‘in a glance’ uno straniero capisce che si trova in un posto pubblico dove lo Stato Italiano, seppur piccola, gli sta offrendo un’opportunità e dismette subito ogni ‘tic’ culturale e se è un marito che accompagna una moglie ‘accofanata’ e super velata proveniente ad esempio dal Bangladesh rurale, non fa una piega se la vede accomodarsi fra due marcantoni di Lagos neri come la pece e belli come il sole adombrato.
Nei regimi detentivi l’intercultura è ancora un’altra cosa. Un domicilio coatto dentro le paturnie degli altri. Un luogo dove il corpo è costretto, spesso nella sua florida gioventù, a vivere ristretto ma alla fine è l’anima e non il corpo a stare stretta. Una buona ragione per non andarci. La maggior parte dei ristretti ci va. Alcuni però ci finiscono. Io ho lavorato per chi dentro c’era. Gli insegnanti costruivano con loro delle pregevoli relazioni. E in quelle relazioni i ristretti si affidavano. La migliore versione di loro stessi si proponeva alla dinamica dell’insegnamento.
Ma non sempre era la migliore versione di loro stessi. A volte era una versione di loro stessi ibernata sotto strati di durezza. Cioè a volte quella versione c’era già solo che non era stata molto adoperata. Altre vote nel caso dei ROM, per esempio, quella versione magari non era mai stata attivata in assenza di qualsiasi stimolo proveniente dalla società. E allora, come dice mio figlio, com’è che noi quantifichiamo la pena? Sommando quello che i ristretti hanno fatto alla società. Ma al di là di ogni attenuante non dovremmo fare il saldo fra quanto la società avrebbe dovuto dar loro e magari non ha mai dato? Le donne ROM spesso vanno a scuola per la prima volta in carcere. Sono cittadine europee. Perché? Prima di allora noi dove eravamo? Nelle loro periferie, nei loro campi, nello squallore di quegli accampamenti, nell’inesorabilità delle loro premature indesiderate plurime gravidanze, noi dove eravamo? I nostri equilibrati giudici dove erano? Il nostro stato sociale cosa faceva? E allora sono oro le parole del Procuratore di Napoli che non si stanca di ripetere che contro la mafia ci vuole più istruzione.
Io aggiungerei: più bellezza nelle periferie, più tempo scuola, più vivibilità nei suburbi, più sport gratuito, più biblioteche, più consultori, più presidi sociali e culturali. E poi più prati curati e amati e meno aree promiscue fra umani e cani che hanno esigenze diverse. Qui a Perth si può vivere in un suburb senza mai sentirsi in periferia oppure orgogliosi di starci. La scuola, l’autobus, il treno ci sono sempre. E la cura, la bellezza, il tratto, il garbo e la sicurezza qui ci sono sempre e nelle nostre periferie quasi mai. Noi odiamo le periferie. Loro odiano il CBD – il centro città. È questione di prospettive. Più guardo questo cielo immenso di Perth e più mi ricordo il carcere.