Caro direttore,
mi chiedi di scrivere sul terremoto che ha scosso l’Italia centrale.
Forse hai saputo che anche la mia casa di Pescara ha oscillato, e che ho passato la notte a pregare Iddio che il disastro non fosse come quello dell’Aquila nel 2009.

Se guardiamo al numero delle vittime, certo la mia preghiera non è stata esaudita, nonostante la densità abitativa dei territori sia molto diversa.
L’Aquila è una città popolosa che, colpita nel cuore, ha pagato un presso enorme, 309 morti.
La terra devastata mercoledì notte è estesa, dal Lazio all’Umbria alle Marche, ma poco abitata e allungata su uno numero infinito di case basse.
Sarebbe stato meno pesante il bilancio, se la scossa non fosse avvenuta nell’affollato periodo di vacanza agostana.
La malasorte vive di coincidenze, anche qui i morti sono più di 250. Il conteggio dei morti è alla fine una beffa del destino. Una vita è una vita, ognuna è di valore inestimabile.

E proprio il valore della vita porta ad alcune considerazioni che meritano di stare alla larga da responsabilità, da polemiche, da facili giudizi da Twitter.
Provo a spiegarmi.
Il terremoto è un evento naturale, col quale parti del mondo devono convivere, come con la neve, il sole e la pioggia. Nella dorsale appenninica che spacca l’Italia dal Friuli alla Sicilia si annida il rischio certo, ma non prevedibile nei tempi, come spiegano i geologi.
I terremoti sono dunque parte della nostra vita, non eliminabili né addomesticabili. I terremoti non si possono prevenire, ma affrontare sì. Si potrebbero evitare le conseguenze devastanti. Allora perché tutte le volte fanno disastri? Perché, nei secoli, dopo i giorni della distruzione, sono stati anche dimenticati, rimossi fino alla volta prossima.

Amatrice-1

La zona di Amatrice, per parlare dell’oggi, alla metà del ‘600 fu rasa al suolo da un terremoto. L’Aquila, nel 1703, subì la stessa sorte. Allora, non c’erano strade per spostarsi come oggi, non c’erano le tecnologie che abbiamo oggi. Si ricostruiva negli stessi luoghi, con le stesse tecniche e gli stessi materiali. Questione di secoli, e la distruzione tornava pari pari, perché la faglia, sempre la stessa, si muove e si contorce.

Mercoledì notte è accaduto ancora, perché Amatrice, Accumoli e Arquata erano rimaste strutturate come cinquecento anni fa. Perché Norcia, a parte i danni alle mira e ai monumenti rinascimentali, è rimasta in piedi? Perché Norcia ha avuto due terremoti nell’éra moderna (1979 e 1987) ed è stata ricostruita per resistere ai terremoti.

La stessa cosa accade all’Aquila che, dopo il terremoto del 2009, sta rinascendo come una città “moderna”, in grado di resistere alla terra che si muove, e che si muoverà nei secoli dei secoli. L’Aquila sarà una città giapponese, a prova di terremoto giapponese.

La faccenda è dunque chiara. Il terremoto fa parte della nostra vita, ma ci sono i mezzi per fermare o limitare i danni.
Le tecnologie antisismiche hanno raggiunto livelli di perfezione, nell’edilizia mondiale. Esse non sono sulla luna, sono a portata di mano. Abbiamo imprese, tecnici e manovali di prima categoria per applicarle.
Servono investimenti, ingenti. I borghi vanno ricostruiti, secondo regole che esistono già. Non è agevole mettere in sicurezza territori estesi, come quelli colpiti dal terremoto di mercoledì. Non giova l’atteggiamento “rassegnato” , lascito della civiltà contadina, preziosa per tanti altri aspetti. Il terremoto non è un castigo di Dio. E’ un avvenimento naturale che possiamo mettere sotto controllo con la scienza.

Ecco, forse il vero problema della nostra bell’Italia è di non avere un buon rapporto con la scienza. Pendoliamo ancora pericolosamente fra superstizione e magia. E non ci rendiamo conto che, questo atteggiamento, produce morti da piangere tutte le volte come se fosse la prima.
Quando la natura si scatena, riemergono tutti i limiti del nostro Paese nel rapporto con la scienza.

Ed è questa la vera ragione che non spezza la catena di morti e di lutti. Senza nulla togliere a sant’ Emidio d’Ascoli, che ci protegge dai terremoti, è ora di affidarsi a san Tommaso apostolo, patrono della scienza.


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Pugliese errante, un po’ come Ulisse, Antonio del Giudice è nato ad Andria nel 1949. Ha oltre quattro decenni di giornalismo alle spalle e ha trascorso la sua vita tra Bari, Roma, Milano, Palermo, Mantova e Pescara, dove abita. Cominciando come collaboratore del Corriere dello Sport, ha lavorato a La Gazzetta del Mezzogiorno, Paese sera, La Repubblica, L’Ora, L’Unità, La Gazzetta di Mantova, Il Centro d’Abruzzo, La Domenica d’Abruzzo, ricoprendo tutti i ruoli, da cronista a direttore. Collabora con Blizquotidiano.  Dopo un libro-intervista ad Alex Zanotelli (1987), nel 2009 aveva pubblicato La Pasqua bassa (Edizioni San Paolo), un romanzo che racconta la nostra terra e la vita grama dei contadini nel secondo dopoguerra. L'ultimo suo romanzo, Buonasera, dottor Nisticò (ed. Noubs, pag.136, euro 12,00) è in libreria dal novembre 2014. Nel 2015 ha pubblicato "La bambina russa ed altri racconti" (Solfanelli Tabula fati). Un libro di racconti in due parti. Sguardi di donna: sedici donne per sedici storie di vita. Povericristi: storie di strada raccolte negli angoli bui de nostri giorni. Nel 2017 ha pubblicato "Il cane straniero e altri racconti" (Tabula Dati).