«Sì, il Nirvana esiste: consiste nel condurre il tuo gregge ad un pascolo verde, mettere il tuo bambino a letto, e scrivere lultima riga della tua poesia»
(Khalil Gibran)

L’afa la faceva da padrona da giorni, quel cruscotto era diventato un incubo incandescente: quella notte l’orologio segnava le 02:00 ed il termometro era fermo a 35º.

Dilettanti coloro che si lamentavano di quelle temperature a mezzogiorno:  lì dov’era lei, ci si doveva misurare con immense esagerazioni. Sempre.

Nel bene e nel male, all’ombra o al sole, di giorno o di notte, la vita non sembrava essere stata programmata per momenti di bramata quiete. O forse no, lo era, ma forza e forza, anche le persone diventavano incapaci di lasciarsi andare: spesso faticavano addirittura a tirare le cuoia e giravano la clessidra prima che la sabbia fosse finita.

In quei casi, la scusa regina era lo scadere del tempo: un tempo che invece aveva ancora tempo, bastava fare lo sforzo di accorgersene o trovare il coraggio per dare ascolto a chiunque quel tempo volesse in qualche modo fermarlo e farlo durare.

Si era chiesta spessissimo come si potesse fare a trovare quel modo di essere impavidi, un modo enorme considerato che implicava doversi fidare di qualcosa o, peggio, di qualcuno.

Come quella notte bollente in cui per fare gasolio avrebbe avuto più senso mettere un bikini: infattibile in una società come la sua. Ovvio.

Già, doveva essere esattamente così: lasciarsi mettere un costume da bagno dalla vita, in mezzo al totale improbabile ed improponibile, misurarsi ogni momento con le paure e gli imbarazzi per provare a capire se mai ne sarebbe valsa la pena, a rischio di pentirsene.

Ma per cortesia! Un’idea folle ed inconsistente.

Non sarebbe mai e poi mai accaduto.

Non lo avrebbe mai permesso.

Non si sarebbe mai fidata.

E di fatto nulla accadde.

E di fatto nulla permise.

E di fatto mai si fidò.

Lei.

E poi ci sono io che di lei ho deciso di raccontarvi: qualcosa mi dice che la sua intera esistenza sia stata sbagliata e sprecata dietro a tanto proteggersi dal caldo, dal freddo, dal mondo.

Perché sempre qualcosa mi dice che se si fosse soffermata e si fosse lasciata passare da parte a parte da quelle lame incandescenti, avrebbe sì toccato anche i 45º nelle budella, ma avrebbe conosciuto una cosa che sono convinta conosca forse un solo uomo su un milione. Forse. E sono uno su un milione davvero: l’appagamento.

Quello che non arriva mai totalmente e da ogni lato, ma che consola profondamente per tutto ciò che invece manca ed è sempre mancato.

Ve lo siete mai chiesti? Cosa significherà sentirsi appagati? Ma appagati davvero, non con le chiacchiere a difesa della facciata.

Io credo che sia ancora presto per girare la clessidra: la sabbia è ancora lì.

Appagamento: si scrive così e si legge “No, non siamo pieni di sole miserie, non stanchiamoci mai di cercare, lasciamo la vita ci possa vedere”.


FonteFoto di Aron Visuals su Unsplash
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.