Sembra un paradosso, eppure in un contesto di numerosissimi ed evoluti strumenti di comunicazione si constatano solitudini, emarginazioni e chiusure in gruppi e clan. Una contraddizione che tocca persone singole e aggregazioni. Fa tristezza poi constatare come in alcuni ambiti ecclesiali le relazioni stentino: spiritualità e attività antiche e recenti fanno a gara nello screditarsi, nell’imporsi e nel sovrapporsi. Una vergogna che, debitamente considerata, dovrebbe sconfessare ogni gruppo che si dice cristiano.

Purtroppo esiste un  grave pericolo: si fa l’analisi critica di una situazione, si imposta una denuncia seria, argomentata, ma poi, soprattutto quando si incontra qualcuno con cui  sembra scattare una qualche affinità, c’è il rischio di smarrirsi, non si va oltre… finendo con il compiangersi e l’autocommiserarsi. Questo ripiegamento può anche trasformarsi in un catastrofismo  mortifero. Sono situazioni molto critiche per ogni persona, quando viene a mancare l’interazione tra pensare, confrontarsi e agire.

C’è da essere grati a chi ci aiuta a esercitare un’attenta, vigile, partecipata e sofferta riflessione su noi stessi e sul mondo, spronandoci a dare un seguito coerente al “vedere” e al “giudicare, mostrando come sia necessario “agire“ dopo aver dialogato e riflettuto. La mancanza di coraggio forte e leale nelle scelte condivise e la paura delle decisioni conducono facilmente verso l’inganno, rischiando di confondere i confini tra il bene e il male, fino a perdersi.

Se dall’individuo spostiamo l’attenzione al “gruppetto”, luogo dove alcuni si cercano, rifugiandosi e “rintanandosi” nel proprio comunicare e confrontarsi, emergono atteggiamenti di paurosa aggressività nei confronti degli altri non appartenenti: è la sindrome da accerchiamento. Si perdono così i contatti con la realtà. Tutto e tutti sono percepiti come possibili antagonisti. Ciò che appare nei cambiamenti e nelle ricerche è inteso come nemico da tenere a bada. Non c’è nulla da salvare, nulla da ascoltare: è la vittoria dell’incomunicabilità, anticamera di una mentalità “mafiosa” in cui la parola è vuota.

Qui l’analfabetismo – l’essere senza parola – diventa una piaga culturale, per chi, pur possedendo uno strumento essenziale, la parola, non è in grado di “leggere” il mondo e la storia, “scrivendo” con le proprie mani e con la propria azione qualcosa di nuovo, perché, oltre ad avere  una personalità fragile e contraddittoria, gli manca una disarmante capacità di confronto libero e franco.

È auspicabile un fortissimo esame di coscienza, per smantellare certi spiritualismi contraffatti da una pseudo religiosità e per restituire autenticità alla comunicazione interpersonale e sociale.

Comunicare non è solo trasmettere informazioni, ma soprattutto condividere frammenti di tempo e di spazi… pezzi di storia in rapida evoluzione, che ci vedono protagonisti positivi. Tutto questo spalanca le porte a un rapporto di confidenziale tenerezza, imparando ad aspettare e ad apprezzare i silenzi e le parole altrui, apprendendo a gioire della semplicità e immediatezza della loro presenza.