
«Ho orrore di tutte le verità assolute, delle loro applicazioni totali, dei loro presunti detentori d’ogni risma. Prendete una verità, portatela con cautela ad altezza d’uomo, guardate chi colpisce, chi uccide, cosa risparmia, cosa elimina, annusatela a lungo, accertatevi che non puzzi di cadavere, assaggiatela tenendola un po’ sulla lingua, ma siate sempre pronti a sputarla immediatamente. L’uomo libero è questo: il diritto di sputare»
(Albert Camus)
E allora, se per sopravvivere abbiamo bisogno di ossigeno, è possibile sia necessario saltare lo step per cui cerchiamo sempre di mettere a posto ogni cosa, convincendoci che quelle, le cose, ce lo chiedono di essere lasciate così come sono.
Per quale assurda ragione dovremmo ostinarci a portare a termine qualcosa che non intende lasciarsi realizzare? Qual è la legge che sancisce il nostro diritto di decidere che un progetto, e non un altro, magari opposto, deve essere necessariamente quello destinato a noi, solo perché in un certo momento ci è parso di poterlo scegliere? Se poi non va, non va. E se lo ha deciso, dovremmo saperlo rispettare.
Penso a quando restiamo ostinatamente concentrati a spendere ogni oncia di energia in questo senso: sistemare, trovare un colpevole, lamentarci, sempre compiendo lo stesso sciocco movimento. Il gatto che ci prova a mordersi la coda e non si infila in testa che sta perdendo tempo: lo stesso tempo che potrebbe impiegare, chessò, ammirando la luna dal tetto.
Tutte volte in cui, nel vano tentativo di mettere a posto le cose, proviamo a mettere a posto noi stessi: più simpatici, più empatici, più pratici, più aperti, meno sensibili. Già, vorremmo trovare l’equilibrio con la P di Perfezione, percorrendo continuamente il periplo della nostra sagoma, trovando i prodromi del tempo perso.
Come quando, scrivendo, per esempio, mettiamo insieme tante belle parole che iniziano per P, che hanno un senso, che scivolano bene, ma sempre troppo piene di sé appaiono.
Tutto in ordine, quando, invece, è l’inatteso, il disordinato, l’imprevisto, ciò che guida il passo più genuino verso la comprensione e la realizzazione: fidarsi, affidarsi, lasciarsi accadere la vita, senza porsi due milioni di domande, inclusi i novecento perché che ci fanno correre e, inevitabilmente, finire in fuorigioco, per vederci annullare il gol.
Come quegli uomini esemplari che hanno saputo fare dei grandi dolori motivo di classe e dignità. Quelli che hanno patito la più grande, inimmaginabile ed innaturale delle sconfitte: sopravvivere a un figlio e colmi solo di voragine, sono diventati capaci di perdere contro gli azzurri e, in lingua tricolore chiudere un conto confermando con eleganza e disarmante sincerità: tiferò Italia.
È il caso, quindi e decisamente, di fare esattamente niente. Spegnere l’interruttore, la mente, le previsioni, le preoccupazioni: basta anche cercare.
Bisogna stare fermi nel vuoto. Volere solo quello, con tutte le forze. Sarà improvviso l’ordine: le cose, quelle di cui sopra, faranno scacco matto e si metteranno a posto, certo. Ma in un solo modo: da sole.
Libere loro, liberi noi.
Ammàn.