IO STO QUA

“Stoc Ddò” non è solo uno spettacolo teatrale con Sara Bevilacqua (della compagnia Meridiani Perduti), tratto dalla drammaturgia di Osvaldo Capraro, che andrà in scena venerdì 19 maggio, alle ore 21, presso l’Auditorium SS. Sacramento Mons. Di Donna, ad Andria, “Stoc Ddò” è un grido di dolore, l’omertà che non abbatte la voglia di riscatto, la reticenza, ora, lascia spazio ad un senso di giustizia che affonda le radici nel cancro sociale della malavita, quella barese, uomini d’onore nei quali “il nulla si mischia col niente”, l’onore degli uomini, delle vittime innocenti, di protagonisti involontari divenuti eroi loro malgrado, un Angelo di Bari Vecchia che continua a vivere corroborato dagli occhi dei suoi genitori, Lella e Pinuccio, presenti in sala.

Michele Fazio è un acerbo giovanotto di sedici anni quando viene erroneamente colpito a morte durante un regolamento di conti fra clan rivali. E’ il 12 luglio 2001, la gente dei vicoli di Bari Vecchia si riversa per le strade mentre Michele è sul lungomare con gli amici. Ad attenderlo è il papà Pinuccio, tornato per le ferie da Milano, dove lavorava come ferroviere. Tra le sue mani Michele brandiva un cellulare, un regalo proprio di Pinuccio, lo desiderava tanto, forse per dimostrare alle persone cattive che “anche un pezzente può avere un telefonino”. Erano le 22.40 e le pizze fumanti apparecchiavano la tavola della famiglia Fazio. A scorgere Michele dalla finestra, a pochi metri dal portone di casa, è Rachele, sua sorella, allora tredicenne. Lella, la madre, si precipita giù in strada, in largo Amendoni, pare impazzita, “Vidi le donne dei mafiosi, che erano tutte bionde, e sbraitai: “Se mi muore mio figlio vi prendo uno a uno”.

Chi siete voi che mi volete malmenare? Stoc ddò, sono venuta io a casa vostra. Ah, non avete detto niente? Sono io che adesso parlo!”. L’interpretazione di Sara Bevilacqua è intensa, appassionata, viscerale, entra nel profondo senza dimenticare di tangere la superficie del silenzio, un non detto più eloquente che mai, il ritratto perfetto di Lella, una leonessa che affronta la vita di petto, come chi non ha nulla da perdere, come chi trova nel cuore il coraggio di andare a bussare alla porta degli assassini di suo figlio.

Ciao, Sara. Quanto è stato difficile interpretare e trasmettere al pubblico il dolore di Lella?

Lella si è fidata di noi, voleva che la storia e la memoria di Michele continuassero a viaggiare. Ho studiato il barivecchiano, difficile per una brindisina come me con l’accento salentino. La pausa covid in questo mi ha aiutato. Non è un’imitazione, solo recitazione asciutta.

Sul palco sembra che tu pianga davvero…

Certo che sì. Immedesimarmi nell’energia e nella forza di questa Donna, estremamente cattolica, mi ha segnato, il loro dolore trasformato in impegno civile è qualcosa di unico. Da ventidue anni, Lella e Pinuccio girano l’Italia per ribadire l’intenzione di restare nella loro casa, Bari Vecchia, presidio di legalità. Dopo ogni spettacolo mi sento svuotata.

Pinuccio e Lella sopravvivono a Michele grazie agli abbracci e all’amore di chi ha incrociato il loro sguardo, grazie alla loro resiliente capacità di intessere rapporti, quelle relazioni venute fuori dai dialoghi fra Sara, Osvaldo e la famiglia Fazio, testo sensibile, dispaccio emozionale di un fondo raschiato, il gancio a cui aggrapparsi per non cadere nelle dinamiche mafiose di finto orgoglio, il paracadute per planare sulle lezioni di perdono che Lella e Pinuccio impartiscono nei teatri e nelle scuole, per arrivare ai più piccoli, alla sana civiltà di domani:

Lella: ”Dopo aver conosciuto la nostra tragedia, da che parte decidete di stare? Dalla parte degli indifferenti o volete collaborare con la Giustizia, la Magistratura e le Forze dell’Ordine? Mamme, tiriamo fuori inostri figli da giri sbagliati che conducono solo alla perdizione…”.

Le fa eco Pinuccio: “Chi vuole sporcare il nostro quartiere è meglio che vada via!

“Mi è rimasto un ultimo desiderio, e lo tengo qua nascosto iend all’anima, che nel momento della mia agonia, Lui me lo deve far vedere mio figlio, gli deve dare il permesso di venirmi a prendere…”.