“C’è qualcos’altro che ha il potere di svegliarci alla verità.
È il lavoro degli scrittori di genio.
Essi ci danno, sotto forma di finzione,
qualcosa di equivalente all’attuale densità del reale,
quella densità che la vita ci offre ogni giorno,
ma che siamo incapaci di afferrare
perché ci stiamo divertendo con delle bugie.”
(Simone Weil)
“Sopravvivono tutti, anche gli invertebrati” (Franco, il bidello).
Un giovedì mattina qualunque, sono seduta accanto al termosifone, sistemo le ultime cose prima di entrare in classe, Franco e Nancy parlano fra loro.
Non ho mai avuto la capacità di estraniarmi completamente, non ci metto del mio, è un fatto di iperattività neuronica. Però non ascolto e non sento niente, mentre lavoro, salvo quando arrivano piccoli segni vocali ad attivare le mie sinapsi.
L’immobilità, lo status quo, l’accettazione passiva, la pigrizia del pensiero, la stasi della vita, l’inattività, l’indolenza.
Tanto “sopravvivono tutti, anche gli invertebrati”.
“A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo”: non dev’essere un caso se per citarlo mi tocca riaprire giusto quel romanzo dal titolo Delitto e castigo.
Ogni volta che si soprassiede, perché lo si fa molto più spesso di quanto lo si vorrebbe, ogni volta che ci si adatta, ogni volta che ci si accomoda, probabilmente si sta commettendo un delitto. Perché poi, inevitabilmente, segue il castigo.
Il castigo di una vita che perde il potere dell’immaginazione, dello stupore, del sorriso gratuito, della voglia di fare, tentare e, perché no?, anche disfare.
Spesso, quando tocca pensare che azione potrebbe voler dire rischio di errore, si tende a non fare niente, rimanere nel limbo, in piedi sull’uscio, una sorta di grey zone. Si lascia che le cose vadano, quando provare a guidarle diventa un atto di coraggio che richiede fatica.
E probabilmente non è neppure quello il problema. Ciò che frena potrebbe essere l’istinto, oramai primordiale, di qualcosa che assomiglia al concetto di deresponsabilizzazione.
Ci si siede. Si aspetta.
Confondendo l’attesa coraggiosa, che non è mai attesa immobile, con l’attesa rinunciataria, che intorpidisce e lascia che il fluire delle cose scorra inesorabilmente da solo.
Del resto ci hanno ben insegnato, non sbagliando, che nella società liquida di Baumann (la nostra, altroché di Baumann), si è smarrito il piacere dell’attesa, mercificato e barattato con la cultura dell’hic et nunc, dove tutto è fast food.
E allora? Allora ci si fortifica pensando che il solo atto dell’attendere, si tramuti in automatico in un segno di prodezza ed audacia.
Ma, mi chiedo, di fondo, aspettare cosa?
L’impossibile non cambia da solo, non si può pensare che siano o debbano essere sempre gli altri ad agire per conto nostro, a nostro favore o in nostro danno. Né possiamo essere sempre noi ad adattarci in modo più o meno comodo, cullandoci su un: “tanto, non c’è niente da fare. Pazienza”.
Pazienza. Più volte ho letto essere l’esclamazione di chi va via perché non vuole più aspettare, o di chi non si muove perché solo quello sceglie o sente di poter (voler) fare: aspettare.
L’ignavia. L’accidia.
E così, questa mattina, affacciata come ogni mattina alla finestra del mio bagno, nell’inutile e continuo tentativo di capire come sia possibile che i -2 gradi centigradi di qui non facciano effetto Frozen, eccolo. Lo splendore del panorama che ogni giorno mi saluta. È sempre lui, non si sposta la mia casa, non si sposta ciò che vedo. Saldi, ormeggiati, perfettamente ancorati.
Eppure… non ho potuto fare a meno di cristallizzare il mio pensiero nella sequenza di foto che segue.
Oggi. O Un giorno qualunque:
ore 07:30
ore 07:45,
ore 08.00.
Il creato è contrario all’ inerzia.