Fa impressione pensare che l’uomo che hai di fronte abbia ucciso tre persone. Una spontanea esitazione ti blocca quando questo signore di mezza età entra nell’aula e tu sei lì, col tuo foglio di domande in mano, di fronte ad una platea di persone che si aspetta un testa a testa. Gli altri studenti del corso di Sociologia Politica sono agguerriti e pronti a mettere in campo le proprie conoscenze, ma resteranno spiazzati tanto quanto me.
Maurice Bignami è stato uno dei vertici di Prima Linea, organizzazione rivoluzionaria di stampo comunista che si contrapponeva alle Brigate Rosse. La sua storia ufficiale racconta che già nel 1986 si sia avvicinato al liberale Partito Radicale,che ha subito incontratola religione cattolica, ha diretto per un mese un giornale di estrema destra per provocazione e lavora da vent’anni per la Caritas.
Mi sarei aspettata che quest’uomo dagli occhi azzurri dicesse: “Ho creduto nella violenza e mi vergogno di averlo fatto”.
Invece ne giustifica l’uso come storicamente intrinseco nella cultura europea.
“Pensate a Robespierre!” continua a ripetere.
Nel suo racconto, evita di menzionare l’agente Lorusso, ammazzato a Torino, la sparatoria contro la polizia in cui rimase ucciso un giovane passante, la rappresaglia contro il barista che li aveva denunciati. Sembra che la sua memoria li abbia rimossi, così come viene rimosso dalla mente dei bambini il ricordo delle prime cadute.
Nasconde il sangue sulle sue mani, dalle sue labbra esplodono gli ideali di un giovane che credeva nella gente. Ma non in tutti: le Brigate Rosse erano forze reazionarie che puntavano alla distruzione dello Stato Borghese, mentre Prima Linea lo voleva utilizzare, perché ne aveva compreso la forza.
“Mi scusi, ma Prima Linea non ammazzava i brigatisti. Avete ucciso poliziotti e gente comune”.
Glissa sulla domanda e torna a raccontare, inarrestabile, di quando anchele ragazze erano pronte a spaccare la testa di un poliziotto. L’inconscio intento di questo flusso di coscienza è quello di dimostrare ad una platea di giovani che la società è sempre malata, ma le condizioni per la lotta armata non ci sono più.
In prima fila c’è suo figlio ventitreenne. Mi chiedo cosa pensi di suo padre.
Dalla dolcezza con cui si prende cura di lui, ho l’impressione di non avere più davanti un criminale o un pazzo, ma un uomo lasciato così a lungo a macerarsi nel comunismo durante i vent’anni di carcereche la realtà non corrisponde a quello che vede. Rifiutare la propria ideologia, per lui, sarebbe come per un cattolico smettere di credere in Dio.
La foresta nella testa di Bignami è impenetrabile.Non vuole che il mondochel’ha tradito lo guardi col ribrezzo riservato agli assassini e allora racconta al mondo la bella storia della redenzione, mentre per un gruppo di ragazzi ha imbastito la favola degli ideali e della lotta.
Ma i suoi occhi sono troppo chiari e si lasciano sfuggire i pensieri di un uomo che non riesce a non dividere la società in buoni e cattivi, imperialisti e schiavi. La rabbia è diventata uno scudo che lo allontana dalla realtà. Il figlio lo sposta come un soprammobile, Bignami risponde ai comandi adocchi bassi.
Torna a sembrare un essere vivente solo quando gli chiedono di Prima Linea.
È terribile scoprire che l’unica prigione dalla quale non si può mai evadere è quella della propria mente.