«Nulla è più utile di quegli studi che non hanno nessuna utilità»
(Ovidio)
Era stata una giornata ridondante fra ripetizione continua di termini come perdono, inutilità, utilità, servizio.
Così si era fermato a riflettere: non riusciva a pensare al perdono religioso che lo spingeva verso l’idea di un atto spirituale necessario per avvicinarsi al divino e forse imitarlo: una sostanza dell’anima che necessita di darsi e donarsi all’altro concedendo qualcosa importante di sé.
Lui rifletteva piuttosto sul sentimento del perdono psicologico, un perdono specifico e rivedeva persone, forse sé stesso, che non perdonano perché non dimenticano e così facendo, non vivono.
Il perdono, in definitiva, doveva derivare da atti umani, di rabbia, offesa e molte volte diventava uno step sconosciuto che lasciava spazio solo alla vendetta. E quella, si sa, presenta il conto comprensivo di more ed interessi diventando un favoloso atto di replica, decisamente più grave.
Gli tornavano in mente i propositi dei nazisti: dieci italiani fucilati, per ogni tedesco ucciso.
E, di contro, pensava a quelle vittime di delinquenti che, al contrario, avevano asserito di non poter odiare, né poter provare sentimenti di vendetta verso qualcuno che ritenevano indegno della stessa esistenza. In sostanza, non era possibile distruggere chi già non esisteva.
Ecco, quindi, che ritenere un uomo totalmente privo di qualsiasi senso della dignità, rebus sic stantibus, cancellava l’illusione che la vendetta potesse ristabilire gli equilibri.
E allora? Allora sarebbe stato bello se tutto questo avesse potuto voler dire che la rabbia si poteva cancellare con la nuova via, il perdono, ovvero la comprensione di chi aveva fatto un torto, pur tenendo l’offesa sempre e umanamente presente: ad un uomo ferito non si poteva certo negare il diritto a non cancellare del tutto la rabbia, ancor più se la violenza era stata seria, dolorosa, pesante.
Come dire: sarebbe stato bello pensare ad un uomo offeso e ferito, in grado sì di dirsi arrabbiato, ma pure di dirsi disposto a capire l’altro e perdonarlo, anche per mancanza di voglia di odio e persecuzione. Fosse stata solo pigrizia…
Il punto era vedere il perdono come atto facilitatore: anche portarsi dietro il peso di dare una colpa ad un altro è un peso che ci si trascina a fatica. Il perdono, quindi, poteva essere un’ancora di salvezza per sé stessi, finalmente liberi dall’inutile lotta ideologica tesa a far valere le proprie ragioni: e che si vince? Il mongolino d’oro?
L’assenza di perdono poteva addirittura aumentare la colpa poiché, tempo al tempo, ci si sarebbe accorti di essere tutti fallibili e perennemente in procinto di sbagliare qualcosa in modo fragoroso: quindi perché mantenere per forza in piedi Azazèl, il capro espiatorio che doveva fare da riferimento al ricordo di un dolore?
Ecco: la sua riflessione aveva trovato un senso. Il perdono era un concetto astratto se allontanato dall’idea che ne aveva la Chiesa, un sentimento capace di dissoluzione del male stesso, di dono sì all’altro, ma ancor prima a sé.
Del resto, spesso, l’altro si riduce ad essere un essere inutile, no?
Si guardò allo specchio e si rispose: no nessuno, nessuno è inutile. E si perdonò per averlo pensato.