«E io: “Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta”»
(Purgatorio VI, vv. 49-51)
Il canto sesto ci vede ancora tra quanti sono stati uccisi con violenza, nel secondo balzo dell’Antipurgatorio. È il secondo dei tre “canti politici”: il sesto dell’inferno, dedicato a Firenze, il sesto del purgatorio, che vede come principale destinataria l’Italia, e infine il sesto del paradiso, che ospita una storia del Sacro Romano Impero.
L’incontro con l’anima di Sordello da Goito, mantovano come Virgilio, offrirà a Dante l’occasione per lanciarsi in un’aspra invettiva contro l’Italia. Ne è ben noto l’incipit:
«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Purgatorio VI, vv.76-78).
L’Italia, dominata da stranieri, non è solo definita serva, ma anche ostello di dolore, albergo di ogni sofferenza, una nave senza timoniere, sbattuta dalla tempesta, non signora di territori sottomessi (questo significa «donna», dal latino domina), ma ambiente corrotto, proprio come un bordello. Vabbè: il pensiero corre all’attualità…
Non meno dura sarà l’apostrofe che Dante, e non è la prima volta, rivolge alla natia Firenze. Qui, l’ironia fa largo uso della tecnica dell’antifrasi e, dunque, tutti i complimenti che il poeta rivolge ai concittadini vanno letti esattamente al contrario: ben possono i fiorentini promettere pace e prosperità o riempirsi la bocca della parola «giustizia»: continuando a cambiare «legge, moneta, officio e costume» (v.146) e persino le loro «membre» (v.147), ovvero i propri abitanti, a Firenze non resta che comportarsi come quell’ammalata che, girandosi e rigirandosi nel proprio letto, si illude così di poter alleviare la propria infermità.
Quanto diverso, un simile comportamento, da quello di Sordello che pure, nella postura «altera e disdegnosa» (v.62), nel suo guardare «a guisa di leon quando si posa» (v.66) tanto ci aveva ricordato la fierezza di Farinata degli Uberti: a Sordello, basta sentire la parola «Mantua», inizio del celebre epitaffio virgiliano, per slanciarsi al collo dello sconosciuto concittadino (solo nel canto successivo saprà che si tratta di Virgilio e gli si inchinerà con profonda riverenza…), saltando ogni convenevole, tanto è forte in lui l’amor patrio.
Ma in questo canto c’è un’altra terzina che attira la mia divertita benevolenza. È quella in cui, un attimo dopo che Virgilio ha suggerito di non indugiare nei dubbi, ché questi saranno tosto chiariti dall’incontro con Beatrice, Dante sbotta:
«Segnore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta»
(Purgatorio VI, vv. 49-51)
Quanto rende sciocchi e saggi l’amore! Tutta la dignità di Sordello si scioglie davanti all’amore per il compaesano. Tutta la fierezza del sommo poeta si liquefà al sol sentire nominare l’amata Beatrice, tanto che egli già «sdimentica ogni affanno», per usare le parole di Machiavelli, e vorrebbe completare l’ascesa del Purgatorio prima di sera…
Sento ripetere che nella vita si è bambini due volte: quando si nasce e quando si invecchia. Forse è anche il caso di precisare che si nasce saggi e, da vecchi, lo si ridiventa: il problema sta in mezzo…
Alden Albert Nowlan: «Il giorno in cui il bambino si rende conto che tutti gli adulti sono imperfetti, diventa un adolescente; il giorno in cui li perdona, diventa un adulto; il giorno che perdona se stesso, diventa un saggio».
Catullo: «Capisci meno di un bambino di due anni che dorme tra le braccia del padre».
Paolo VI: «Dite ai giovani che il mondo esisteva anche prima di loro, e ricordate ai vecchi che il mondo esisterà anche dopo di loro».