Mi è stato chiesto di raccontare la mia esperienza londinese.
Ammetto, ho tardato molto a consegnare l’articolo, non per la pretesa di farne un capolavoro della recente editoria, ma per liberarlo il più possibile dai dubbi, che mi attanagliano ultimamente, e che potrei riassumere nel titolo ‘Should I stay or should I go’.
È il tipico dramma che assale gli expats (gli espatriati) prima o poi. E a decretare la scelta vincente saranno le eventuali offerte di lavoro ricevute o le proposte di assestamento affettivo/familiare o, a volte, le piccole nostalgie diventeranno così prepotenti da lasciare tutto e fare il primo biglietto di ritorno a Casa. Perché è l’appellativo che un solo posto può meritare.
Let’s start from the beginning.
Purosangue andriese da innumerevoli generazioni (nonostante la nascita all’opedale di Terlizzi), infanzia e adolescenza felicemente pugliesi, mi trasferisco a Roma per studiare Medicina e Chirurgia all’’Ospedale “der Papa”, come spesso viene appellato il Policlinico Gemelli dalle nonne di tradizione cattolica. Poi un anno di lavoretti tra cliniche private e bizzarri turni in ambulanza, coronati dall’inattesa borsa di studio “dott. Giuseppe Marano” della Fondazione “Porta Sant’Andrea”.
Dopodiché, quasi un anno fa, mi sono catapultata in questa singolare isola autartica che fatica a considerarsi europea.
Grossa Fortuna: ho condiviso appartamento e esperienza con due colleghi di Università. E nel nostro nuovissimo salotto very british style (carta da parati e moquette inclusi) sono iniziati gli utili confronti e le terapie di sostegno. Già, perché lo scontro iniziale è inevitabile, con la città, le abitudini, il clima, il cibo e tutti i soliti maledettamente veri cliché dell’Italiano a Londra.
Altra grande sfida all’arrivo in ospedale: una babelica varietà di accenti che a fatica riconoscevamo come ‘quelllochepensavamofosseinglese’. E a rendere le cose più challenging, come direbbero loro, c’è stata la coraggiosa, se non incosciente scelta di lavorare nel campo dell’emergenza medica, dove la comunicazione è un buon 80% del mestiere.
“Benvenuti nell’NHS!”*’, benvenuti negli ospedali retti da personale sanitario non medico. Entrando in un reparto inglese, ti potrai facilmente imbattere in un numero imprecisato di infermiere di ogni grado e ambito, fisioterapisti, dietiste, logopediste, farmacisti, tecnici di radiologia. I medici in camicia (niente camice-scorazza-germi per favore!) armati di fonendoscopio attorno al collo, cartellino identificativo e cercapersona ben in vista, vagano, invece, tra un reparto e l’altro a concedere consulenze.
Trovi un simpatico protocollo per tutto: infusione di Eparina, arresto cardiaco, danno cerebrale ‘catastrofico’, formulari con indicazioni terapeutiche, linee guida all’uso degli antimicrobici in terapia intensiva… tutto meravigliosamente scritto, non devi ricordare nulla.
E se non trovi la risposta a quello che cerchi? C’è un numero di telefono da comporre a cui puoi porgere le tue mille domande; nessuna risposta assicurata, ovviamente, finché non trovi l’esperto in quella singola cosa. E se il tempo scorre e il paziente s’aggrava, magari metti giù il telefono e inizi a metter in moto i neuroni assopiti.
Good thing: l’enorme opportunità di lavorare (un po’ meno di conoscere…) con persone da ogni remoto angolo della Terra; ho colleghi iraniani, australiani, palestinesi, cinesi, pakistani, bulgari, francesi, olandesi e sì, a volte anche inglesi.
Altro punto importante. Tanti Italiani, tantissimi, pare che Londra sia la sesta città italiana. Se vuoi fuggire dai tuoi concittadini ti conviene cambiare biglietto aereo, se fuggi dalla disoccupazione nostrana, dall’instabilità dell’ennesimo Governo che non indice il bando che agognavi da anni, dall’impossibilità di fare un piano lavorativo a lungo termine, qui puoi trovare un posticino e un buon salario. E fare i conti con altre rinunce, forse.
Mi permetto di fare delle considerazioni dopo un anno in UK, ovviamente frutto dei miei personalissimi giorni vissuti qui. Non regole generali, facilmente smentibili.
Ho la sensazione che Londra sia la meta di avventori tra i più vari e variegati. Attratti da ottime università, un mercato di lavoro tra i più flessibili, da una moneta tra le più forti in circolazione, da una lingua che parlano quasi tutti, un’organizzazione a volte pedante, ma che fa funzionare meglio le cose, dai quartieri ai trasporti.
Ma non si viene nella City per la qualità della vita finito l’orario di lavoro.
Qui si impara a esser soli, pur circondati da mille persone. Si è tutti di fretta e tutti temporanei. Ne deriva la rarità del fermarsi e di percorrere un lungo percorso insieme.
Ho imparato a festeggiare arrivi e partenze a cadenza mensile, a volte settimanale, Londra è davvero una capitale di passaggio per lavoratori con l’obiettivo di far carriera. C’è anche chi resta, magari per non rinunciare ai vantaggi economici o per sposarsi e adottar bambini, non avendo il diritto di farlo in patria.
Qui ho imparato ad avere un plan: qualsiasi cosa si faccia, occorre avere uno scopo. Individui il problema, programmi la soluzione. Easy peasy.
Allora il mio piano è restare per tornare, esser la lavoratrice di passaggio. Per mesi o anni? Non posso prevederlo. Nel frattempo mi godo il viaggio.
*National Health Service, Sistema Sanitario Britannico.