
Intervista a Gherardo Colombo (seconda parte)
Provate a immaginare che la nostra dignità sia stata cancellata, che i nostri diritti umani siano violati e chiediamoci se, in simili condizioni, saremmo aiutati a capire che abbiamo sbagliato e che abbiamo il dovere di riconciliarci con la società che abbiamo offeso: così Gherardo Colombo, la scorsa settimana, nella prima parte dell’intervista concessa a Odysseo.
Da qui ripartiamo.
Dott. Colombo, “dignità” è una parola nobile, un principio antico: come mai ancora non riusciamo a riconoscerlo? O anche la dignità dell’individuo è un valore negoziabile?
Di fatto sì: è un valore negoziabile, tanto che, di fatti, è quel che succede. Non soltanto esistono comportamenti che negano concretamente la dignità della persona, ma ci sono anche dei movimenti, delle correnti di pensiero che sostengono che sia giusto. Tutte le volte in cui si dice, per esempio, contrariamente a quel che afferma la nostra Costituzione, che è giusto privilegiare una religione rispetto alle altre si mettono le persone su un piano diverso. Chi è musulmano, piuttosto che ebreo o protestante o induista, per alcuni, in questo Paese, deve valere di meno di chi è cattolico. D’altra parte, noi, in generale, facciamo ancora una certa fatica proprio personalmente. Piace a tutti dire come sarebbe bello se la legge fosse uguale per tutti. Tutti lo pensiamo, ma come la mettiamo con quelli che, magari al fratellino più piccolo, vogliono imporre che programma vedere alla TV? Attenzione, perché questo tema ci aiuta anche a cercare una risposta sul perché la mafia non scompare. A tutti piacerebbe che la mafia scomparisse. Ma in termini di qualità, non di quantità, che differenza esiste tra il dire al proprio fratello minore: “Dai qua il telecomando, sennò ti spacco la faccia” e dire al negoziante: “Pagami il pizzo, sennò ti incendio il negozio?” Allora capiamo perché la mafia non sparisce?
Il modello di società per cui le si spende fa venire in mente il concetto stoico di honestum, un valore in grado di coniugare, anche e soprattutto nel sociale, il “bello” con “l’utile”. È questo?
Io credo che si sia pensato davvero tanto. Immagini quante persone si sono succedute in questo mondo e quindi quante persone hanno pensato. Troviamo senz’altro qualcuno che abbia pensato prima di noi un’idea che a noi sembra addirittura nuova. Si tratta di andare a cercarlo. È difficile delle volte riuscire a trovarlo perché la storia è fatta dal pensiero vincente. Cosa se ne sa, ad esempio, del pensiero di Giordano Bruno? Magari ora un pochino di più, ora che è stato abolito l’Indice dei libri proibiti. Ma neanche tanto. Per dirne uno. E cosa ne sappiamo, noi che siamo un Paese in cui anche gli atei o i diversamente credenti hanno un fondamento culturale cattolico, noi che cosa abbiamo conosciuto e conosciamo delle Scritture? Fino a un certo punto è stato vietato di leggere le Scritture perché l’interpretazione doveva passare attraverso gli autorizzati e non conoscevamo una fetta di pensiero di proporzioni eccezionali. Ancora, cosa conosciamo della cultura cinese? Confucio chi è? E così della cultura indiana o araba, e via dicendo. E invece tutti lì, a dare giudizi. Sembra che siamo autorizzati a dare valutazioni di qualsiasi cosa, anche di quelle realtà che non conosciamo per niente. Io non sono vichiano, ma per certi versi mi affascina pensare che le cose ritornino, perché credo che noi effettivamente progrediamo. Il trend generale dell’universo è verso un progredire che magari vuol dire, magari, che esiste un qualche cosa che può essere chiamato Dio e magari vuol dire che esiste la matematica e basta. Chi lo sa. Questo è difficile da poter dire. Quindi io non sono vichiano, ma nello stesso tempo questa convinzione che il pensiero è già stato espresso e si tratta, semmai, di andare a trovarlo e si tratta di andare a trovare quello che ancora non conosciamo, perché ci può servire per andare avanti, attraverso il confronto, l’incastro, e così via, questo lo condivido. Per il resto, definirsi è un po’ difficile. Non so neanche se sia necessario. Ci sono delle cose che sicuramente di quello che penso io oggi, di quello che pensa lei, di quello che altri pensano, è già stato pensato. Questo per certi versi è anche confortante, perché fa sentire meno soli anche quando nell’epoca in cui si vive le persone che condividono il tuo pensiero non sono poi mica tante.
In una recensione pubblicata da Odysseo, scriviamo che le pagine in cui lei dipinge la radice della discriminazione, nel senso che si discrimina colui che si ritiene essere diverso da noi, andrebbero fatte studiare a memoria dai nostri studenti. Questo perché è fondamentale capire che l’uguaglianza è la radice di ogni democrazia, di ogni libertà. Ne conviene?
Sì. È il riconoscimento della dignità. Perché si potrebbe anche essere uguali nell’essere deprezzati. Invece, la nostra Costituzione, che arriva dopo un periodo storico travagliatissimo, parte proprio dal riconoscimento della dignità della persona. La persona è importante. E, in quanto tutti siamo importanti, la discriminazione diventa un controsenso.
A proposito, da anni lei è impegnato nelle Scuole con il progetto Sulle regole: quanto è importante spiegare cos’è una regola ai nostri ragazzi?
A mio avviso, è essenziale. Perché non solo i ragazzi, ma anche noi adulti abbiamo un’idea piuttosto imprecisa, inesatta, delle regole e del loro senso. Vede le regole possono avere qualsiasi contenuto. Possono essere positive e possono essere anche negative. La nostra Costituzione ha costruito un sistema nel quale le regole, se fossero osservate, ci farebbero vivere meglio. Però noi non le conosciamo, non conosciamo le interrelazioni che ci sono tra noi e loro, tra le regole e noi. E quindi bisogna parlarne, bisogna approfondire: bisogna riflettere.
E per essere liberi?
Per essere liberi bisogna imparare. Non basta esser nati o che sia scritto nella Costituzione. Quando avevamo tre giorni, non eravamo neanche liberi di sopravvivere. Avevamo bisogno di qualcuno che ci nutrisse. Per essere liberi abbiamo dovuto imparare a camminare, a nutrirci, a prenderci cura di noi stessi. Abbiamo dovuto imparare a distinguere. Non c’è libertà senza apprendimento.
Se la libertà si impara, può dirci se, nella sua lunga esperienza da Pubblico Ministero, ricorda casi in cui persone condannate si sono redente? O non ricorda piuttosto casi in cui c’è stata recidiva e inasprimento della pena?
In Italia è difficilissimo recuperare persone per tutta una serie di motivi. Il carcere ha come risultato che due persone su tre che ne escono, il 68%, commettono nuovi reati. E dell’altro terzo uno si chiede: non commettono reati o non sono stati beccati? E questo dipende moltissimo dal carcere in sé. Perché il carcere insegna l’ozio e basta. Insegna relazioni personali negative, perché stai con persone che condividono la trasgressività, la devianza e quindi si rafforza l’idea che sia una cosa normale, per non dire giusta, deviare. D’altra parte, il fatto di restare così chiusi in una istituzione totale, nella quale non hai quasi possibilità di esercitare la scelta, ti disabitua anche. Non so se ha visto il film Le ali della libertà. Uno dei protagonisti, Brooks, ha trascorso quasi tutta la sua vita in prigione e, giunto il momento della scarcerazione, fa di tutto per non uscire perché ha troppa paura del mondo fuori e poi, quando esce, dopo un po’, si impicca, perché non è più capace di vivere fuori. E, oltre a tutto questo, c’è l’atteggiamento della cittadinanza nel suo complesso a non accettare chi è stato in carcere, per cui la vita di chi esce è davvero molto, molto e ancora molto difficile. È difficile reinserirsi, se non si dà una mano. La situazione è questa. A me è successo tante volte di imbattermi in persone che, dopo aver commesso un reato, ne hanno commesso degli altri. Ad esempio, i tossicodipendenti non abbienti. Uno arriva a dipendere da una sostanza stupefacente. Finiti i soldi, va a fare una rapina. Entra in carcere, non viene curato. Quando scade la pena, va fuori, riesce a resistere due mesi, tre mesi e poi va a fare un’altra rapina. Lo si conosce perché ha dei precedenti: è facile che venga di nuovo beccato e portato in carcere e via dicendo. Io credo che sia proprio necessario cambiare sistema complessivamente. A cominciare dalle Scuole. Perché, vede, esiste una certa affinità sotto il profilo della giustificazione finale del sistema educativo. Si pensa che il carcere serva dicendo: se ti spavento, allora tu fai quello che dico io. Alla fine, un po’ anche la Scuola, per certi versi, funziona come se fosse indirizzata ad educare all’obbedienza piuttosto che alla libertà. Proprio come sistema. Il pensiero critico dei ragazzi, generalmente, di solito non è recepito molto bene. Lo schema è quello: io ti spiego una cosa e tu il giorno dopo devi riportarmi la cosa come te l’ho spiegata io. Mica mettersi a fare dei voli pindarici, a parlare e dire: ma c’è anche quest’altra teoria e così via, perché, di solito, non è che piaccia. Delle volte, i ragazzi sono trattati un po’ come animali da riporto. Ti butto l’osso e tu devi riportarmelo uguale, preciso e identico a quello che è. Oppure sono trattati come se dovessero essere nutriti con una specie di imbuto in cui versi dentro quelle cose, quelle notizie che loro devono trangugiare così come sono, senza la possibilità di scegliere. Alla fine, il settore, il campo, della Scuola e del carcere, è lo stesso. Si tratta di fare in modo che le persone capiscano qual è il modo di comportarsi perché le persone vivano meglio, più serenamente. Più decentemente. Persona con persona. Allora bisogna cambiare il sistema. Nella scuola, per carità, c’è da cambiare molto di meno. Nel carcere c’è da cambiare molto di più. Quale può essere l’alternativa? In primo luogo, l’alternativa sta comunque nel rispetto delle persone. In secondo luogo, sta in un percorso che abbia l’effettiva finalità di recuperare le persone e cioè di fare in modo che la persona comprenda che cosa è male e che cos’è bene.